Però basta poco per trasformare il Medioevo in un party pazzoide, uno di quelli che hanno come unico scopo scovare e annientare i neuroni troppo reattivi e funzionanti. Basta, appunto, “Twins”.
Con il suo terzo album del 2012, il venticinquenne di San Francisco molla le briglie e lascia che la situazione si sviluppi da sé (una “situazione” che tra album solisti, con band, collaborazioni, singoli, live e split consta di più di 40 uscite – escluse le compilation – in meno di sette anni di attività); il risultato, almeno a un primo esame superficiale, è un generale rallentamento del passo, con un abbandono parziale della frenesia garage rock e psych di “Slaughterhouse”, per abbandonarsi anche a episodi più studiati, senza disdegnare l’occasionale ballatona (un po’ come accadeva negli album “Lemons” e “Melted”, rispettivamente del 2009 e 2010). L’apertura dell’album la dice lunga, con un pezzo di pop acido, grezzo e lo-fi, ma molto Beatlesiano in fondo: il mood è settato e sappiamo esattamente cosa aspettarci. Brani cangianti e imprevedibili, ma orecchiabilissimi, pur non perdendo totalmente di vista la vena ruvida – l’anima garage, insomma – di Segall, che resta se non altro aleggiante.
Certo, la sensazione finale è però di straniamento e ci si ritrova a pensare come mai Ty, che a modo suo è senza dubbio un genio, abbia voluto imbarcarsi in un’operazione così difficile, in cui manca, se vogliamo, un filo conduttore preciso. Perché questo è indubbiamente un disco di Segall e a dimostrarlo ci sono il suo inconfondibile sound di chitarra fuzz (responsabile dell’aleggiamento dell’anima garage di cui si diceva sopra) e la concisione deliziosa dei brani che non vanno mai sopra i due minuti o giù di lì… ma a parte questo, il menù è davvero caleidoscopico. Si va dal folk quasi acustico al garage punk canonico, dal bubblegum pop alla psichedelia intossicante, dallo zuccheroso ammazzadiabetici alla pseudo-jam tossica con tinte alla Jesus & Mary Chain, per arrivare al rave-up chitarristico in stile freakbeat.
Insomma, “Twins” è indubbiamente un buon disco – eccellente se lo si contestualizza in un’annata che lo ha visto preceduto da ben due lavori sulla lunga distanza di Segall. Forse risulterà poco afferrabile per chi preferisce proposte più monolitiche ed omogenee, ma… la verità è che uno come Segall è meglio lasciarlo fare e lasciarlo libero di stupirci. Perché è in un momento di grazia e dobbiamo goderne.