Era un punto interrogativo per tutti, un rischio neanche tanto calcolato. Ed è andata bene, benissimo, oltre ogni previsione. La formula segreta degli Zeppelin, più invidiata e imitata di quella della Coca-Cola, riprodotta per incanto quando nessuno - forse neppure loro - ci credeva più. Volevano ricordare perché si erano guadagnati la fama di migliore live band di tutti i tempi, come ai tempi eroici avevano conquistato il West: ci sono riusciti riaccendendo la miccia di una bomba sonora che contraddice logica e aritmetica, tre strumenti e una voce che sprigionano una potenza di fuoco quasi inconcepibile, ricostruendo quelle "cattedrali di luci e ombre" che sono il tratto distintivo della scrittura musicale di Page, architetto di suoni e mago della dinamica.
Era lui l'incognita più grande di questa rimpatriata. L'oggetto misterioso silente da anni, apparentemente disidratato nell'ispirazione. Non ha più la stessa fluidità di tocco, forse, ma sentite come tiene dritta la barra snocciolando i riff monumentali di "Black dog" e di "For your life" (una prima assoluta, sul palco, per il pezzo estratto da "Presence"). O come è ancora capace di spremere lacrime, dolcezza vellutata e gemiti sensuali dalla sua Gibson in "Since I've been loving you". Un solista ancora formidabile, un chitarrista ritmico diabolico. Plant, nel pieno di una seconda (o terza) giovinezza artistica e con un'emissione vocale che sa ancora essere poderosa, ha l'accortezza di abbassare la tonalità; consapevole di non poter riacchiappare gli acuti vibranti e squassanti della sua giovinezza, supplisce quando serve con il fraseggio, la nuance, il mestiere, i tempi giusti. E se i front men fanno la loro parte, i veri eroi della serata, forse, sono gli uomini di seconda fila: Bonham Jr., rodato da anni sui palchi di tutto il mondo, ha mandato a memoria i pattern di papà Bonzo, amplificandoli con un'agilità e un virtuosismo figli di questi tempi votati alla tecnica. E Jones, che con il basso sa essere allo stesso tempo àncora ritmica e puntello melodico ("Ramble on": un classico praticamente mai proposto dal vivo), si prende giustamente le luci della ribalta nel funk schiacciasassi di "Trampled underfoot",
Il granitico set (niente chitarre acustiche e mandolini, stavolta. Niente folk inglese o dolci sogni di California) sciorina nella seconda parte quasi tutti i crowd pleaser , i pezzi più amati dal pubblico. Una "Kashmir" impressionante, accolta da un boato, e il bis liberatorio/celebrativo di "Rock and roll", mentre Page tira fuori dal cilindro l'archetto ("Dazed and confused", undici minuti e quarantaquattro secondi di psyco-rock d'altri tempi), il theremin ("Whole lotta love", il riff dei riff) e la chitarra a doppio manico e Plant indossa i vecchi panni del "back door man" calandosi senza patemi - a dispetto del suo reiterato imbarazzo - nel ruolo del bardo medievale di "Stairway to heaven", immancabile e come sempre irraggiungibile. "Ahmet, we did it!", sbotta il vocalist al termine dell'esecuzione rivolgendosi allo spirito di Ahmet Ertegun, il fondatore della leggendaria Atlantic Records. Lo hanno fatto per davvero. Missione compiuta, e forse questo è davvero il miglior