I primi ascolti del nuovo album della band di Tucson scivolano via che è un piacere. Per quest’ultima fatica in studio, forse un po’ più accessibile del solito, i Calexico hanno suonato e registrato ai Living Room di New Orleans e hanno dato un taglio alle loro classiche scalette che comprendevano negli album passati dalle quindici alle diciotto canzoni (alcune delle quali prive della parte vocale) per pubblicare il meglio della loro ultima produzione.
“Algiers” è un concentrato di ballads e passaggi folk rock dove viene meno l’insistenza mariachi e dove c’è posto solo per uno strumentale, quello che dà il titolo al disco e che fa da spartiacque alle dodici tracce presenti.
Le cinque canzoni che aprono il successore di “Carried to dust” (pubblicato quattro lunghissimi anni fa) sono di una bellezza rara: la suggestiva ed incalzante “Epic” ci trasporta in un mondo fatto di attese e cambiamenti e gli arrangiamenti sono gloriosi e raffinati dalla prima nota all’ultima, rendendola nell’immediato un episodio indimenticabile. Più avvincente, ritmata e concreta è invece “Splitter”, memorabile fin da subito grazie alla melodia e al ritornello, mentre i bassi che aprono “Sinner in the sea” ci riportano al mondo dei Calexico con atmosfere d’altri tempi e con arrangiamenti prima sudamericani poi quasi noise che fanno da colonna sonora a leggende di pianoforti sotto al mare che suonano requiem per anime disperse e di una terraferma da raggiungere.
La minimale, quasi ai limiti dell’acustico, e quasi sussurrata “Fortune teller” veste perfettamente un testo spirituale come fosse una preghiera rivolta al fato, mentre “Para”, il quinto brano del disco e primo singolo scelto per rappresentare il tutto, si rivela sin dalle prime note una canzone intensa e misteriosa carica di pathos e ricca di movimenti, sia nella musica sia nelle parole. “Algiers”, unica traccia strumentale, è ammaliante e coinvolgente e prepara il terreno per le successive favole di confine come “Maybe on monday” e “Hush” e storie battute su strade polverose da anime latine come “No te vas”, cantata in spagnolo, e la piacevole e sorprendente “Puerto”, che raccoglie dentro di sé tutta l’anima di questo album.
“Algiers” è un’ottima prova di sintesi da parte dei Calexico: non fanno rimpiangere la lungaggine dei dischi precedenti (che comunque erano ben equilibrati) e non fanno nemmeno pensare di aver realizzato un disco in fretta e furia puntando sulle melodie e l’immediatezza dei brani. Lo spessore di una band come questa lo si percepisce in ogni nota e in ogni cambio di tono, in ogni falsetto di Burns e in ogni spazzolata di rullante di Convertino, ad ogni suono di tromba e ad ogni arpeggio di chitarra. Più il tempo passa, più i Calexico invecchiano bene. Non fateveli scappare, siete ancora in tempo per farvi accompagnare su quelle strade polverose che piacciono tanto a loro e a noi.
(L’orologio a Convertino sì, glielo abbiamo restituito…)