Per Santigold l'amore per gli anni '80, per il pop, l'elettronica e la dub, ma anche per l'alternative rock e la new-wave non è solo una pulsione istintiva, ma la colonna portante di una struttura costruita sapientemente e con certosina attenzione. Le citazioni abbondano insomma e, se non si conoscesse l'artista (nota tra le altre cose per essere un'esperta produttrice discografica), suonerebbero come plagi belli e buoni. E per dimostrarcelo la cantante di Philadelphia ha deciso di aprire il disco con il duetto con Karen O., voce degli Yeah Yeah Yeahs . Con "Go!" la partenza è sprint e - volendo azzardare un confronto - potrebbe quasi fare invidia a tutti e 99 i palloncini rossi che 20 anni fa Nena faceva librare in cielo nel brano "99 Luftballons". C'è da precisare che "Master of my make believe" vanta la collaborazione di Nick Zinner (chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs), nonché di Dave Sitek (Tv on the Radio)e Greg Kurstin. Uno staff del genere garantisce un certo grado di sicurezza, ma soprattutto di riconoscibilità. Per fare un esempio, passate subito alla traccia numero 7, "The riot's gone", pericolosamente simile alla splendida "Maps" (Yeah Yeah Yeahs, "Fever to tell", 2003), sia per la modulazione della voce sia per la pennata continua della chitarra in sottofondo. "Disperate youth", secondo brano del disco, nonostante sia stato pubblicato come primo singolo ufficiale, rimane nell'ombra, schiacciata dalle sonorità della prima e della terza traccia "God from the machine", un'azzeccata marcetta fusion, a tratti reggae a tratti punk. Con "Fame" il disco prende una piega diversa: d'ora in avanti ritmi marcatamente esotici e tribali si intrecceranno al massiccio uso di sintetizzatori. I palpiti di tamburi ancestrali scalpitano, talvolta nascosti dietro all' R&B di "Freak like me" (decisamente troppo somigliante a "Rich girl" di Gwen Stefani), al reggae di "Pirate in the water", al rap di "Look at these house"; in altri casi invece dirigono i giochi senza lesinare, come in "This isn't our parade" in cui accompagnano delicati e garbati la voce di Santigold, conferendo al brano una certa sacralità primitiva. E poi esplodono per il gran finale "Big mouth", una danza più che una canzone, un rito intorno al fuoco che sigilla l'intero disco.
In fin dei conti, "Master of my make believe" è un piccolo mondo a sé. Nel 2012, puntare su atmosfere esotiche significa correre il rischio di risultare un po' demodè, ma la "realtà personale" che con questo disco Santi White si è ritagliata senza troppi virtuosismi o pretese d'innovazione, conferma che lei sa bene quello che vuole e fa bene quello che sa. Infine, una piccola curiosità per dare un po' di pepe al tutto. Santigold ha realizzato "Master of my make believe" dopo aver superato un blocco dello scrittore che da tempo la attanagliava. L'artista ha ritrovato se stessa, e la sua creatività, applicandosi nella meditazione trascendentale dopo essersi affidata alle sapienti mani di Nancy Cooke De Herrera, la pubblicista che negli anni '60 mise in contatto i Beatles con Maharishi Mahesh Yogi. Sì, proprio lui…
(Valeria Mazzucca)