C'era poco da sperare, dopo le foto impietose, i gossip malevoli, i tweet e le confessioni circolate in questi ultimi mesi. Sinead sembrava persa per sempre. Risucchiata nel gorgo di mulinelli abissali, tramutata in una maschera grottesca e un po' patetica, l'ultimo paradigma vivente delle ascese e delle cadute vertiginose tipiche del music business. Invece "How about I be me (and you be you)?" suona completamente diverso: come una dichiarazione di intenti, un certificato di rinascita, un proclama di orgoglio Irish e femminile in un mondo che ha tutt'altre dominanti. Sì, è vero, si riallaccia direttamente a "The lion and the cobra" (1987) e a "I do not want what I haven't got" (1980), i primi due classici album che hanno congelato nella memoria una stagione artistica (e commerciale) irripetibile: cosicché anche un singolo decisamente mainstream come "The wolf is just getting married" (non l'unico pezzo di quel tenore, nel disco), rischia di passare inosservato perché altre sono oggi le voci e i volti femminili su cui si accendono i riflettori. "4th and Vine", il contagioso etno-folk a base di mandolino che apre (letteralmente) le danze piacerà magari ai giovani ammiratori di
L'autobiografia (la squillante "Very far from home" è un'autoconfessione sulla solitudine che si prova on the road) evita per fortuna toni eccessivamente melodrammatici e quando Sinead canta, con la sua consueta partecipazione compassionevole, di reietti e di piccoli eroi della quotidianità è più che evidente che parla anche di se stessa: in "I had a baby" (forse l'episodio musicalmente più debole del disco) ritrae le pene di una madre single con la consapevolezza di una donna che da sola o quasi ha cresciuto quattro figli, e in "Reason with me", il capolavoro del disco, di un ladruncolo tossicodipendente in carne e ossa che ha intrapreso il cammino verso il riscatto e la salvezza per "non sprecare la vita che Dio mi ha dato". E' una canzone bellissima anche per il trasparente nitore strumentale, con quel mix di voci, chitarre, organo, pianoforte, sezione ritmica e archi che marchia molte parti del disco prodotto dall'ex marito e amico fidato John Reynolds, e con un tema di fondo - la riconquista dell'autostima e della dignità - che percorre anche la sorprendente cover di "Queen of Denmark", gioiellino "cult" del cantautore americano
Sinead non s'è mai pentita di quel gesto clamoroso che quasi vent'anni fa le segnò la carriera, ha sempre in testa la sua guerra santa e anche stavolta scocca strali velenosi e indignate scomuniche all'indirizzo del Vaticano, reo di occultare gli scandali sessuali e i sordidi episodi di pedofilia portati alla luce, in Irlanda, dal famoso rapporto Murphy. Così, di questo disco, finirà per far parlare di sé soprattutto la ipnotica "Take off your shoes", che su riff circolari e tintinnanti di chitarra si immagina lo Spirito Santo scendere in terra per fustigare i suoi indegni emissari offrendo alla vocalist la chance di arpeggiare sull'intera gamma espressiva, dal soffio flebile e spettrale all'urlo selvaggio e belluino. E il brano gemello V.I.P., un salmo a doppia voce giocato su una sola nota di bordone e di pianoforte che attacca senza fare nomi le celebrità irlandesi e quell' "amico di Giovanni Paolo II" (sì, proprio lui, il frontman della più potente rock band del pianeta) che col loro silenzio continuano a coprire quelle imperdonabili nefandezze (quelle risate, alla fine, stemperano appena la tensione). Il modo migliore per farsi qualche altro nemico e farsi mettere qualche altro bastone tra le ruote, non ci piove. Onore a Sinead, che non fa calcoli e ancora vibra e si infiamma per quello che per lei davvero conta, nella vita.
(Alfredo Marziano)