Tenete ben a mente tutto ciò, perché il nuovo album dei Van Halen - "A different kind of truth", incidentalmente il primo con David Lee Roth dal 1984, appunto - potrebbe risvegliare l'eroe da party metal che è in voi; risultato? Vi verrà voglia di rientrare in quei vecchi spandex a righe, magari a torso nudo, con il capello svolazzante nell'aere del salotto trasformato in palcoscenico del Troubadour.
Insomma, alla faccia degli scettici che non credevano possibile un ritorno in grande stile della coppia Eddie Van Halen/David Lee Roth, questo disco è senza dubbio il degno successore di "1984"; certo, il tempo è passato e non sarebbe corretto fingere di non saperlo, però un'uscita simile tiene, se non altro, fede alla reputazione che il gruppo si è costruito in quelli che furono i suoi anni d'oro.
"A different kind of truth" è pop metal scanzonato, scintillante, pirotecnico, sbruffone il giusto e gigionissimo: i suoi brani melodici e saltellanti sono anche percorsi da una piacevole vena più hard del solito... insomma, è quasi a prova di bomba. E lo è soprattutto se non siete appassionati hardcore e collezionisti di demo e outtake, perché in questo caso poco vi importerà della polemica che impazza intorno alle 13 canzoni dell'album - pare infatti che la maggior parte di questo materiale sia stata presa da vecchi demo, scarti e frattaglie di 30 anni orsono.
Detto questo, alla fine della giornata quello che ci resta in mano è una bella prova. Il girovita di David è rimasto quasi quello di 28 anni fa, l'energia istrionica che sa trasmettere ha perso solo poco smalto, la voce regge ancora dignitosamente (i capelli un po' meno: il trapiantino è innegabile); ma nonostante tutti gli occhi siano puntati su di lui, il figliol prodigo tornato all'ovile, spenderei qualche doverosa riga per Mr Eddie Van Halen, in forma smagliante. Le sue dita fanno numeri esaltanti sul manico della EVH Wolfgang, con quel suo classico stile melodico e rock - esuberante, ma privo del tipico e borioso compiacimento neoclassico di alcuni colleghi: è decisamente un piacere ascoltarlo, anche senza essere chitarristi o appassionati del virtuosismo senza limiti.
Paradossalmente il brano meno convincente è proprio il singolo (nonché traccia d'apertura del disco) "Tattoo", con quel suo piglio sciocchino e il ritornello da pop song finita in classe differenziale. Il resto invece è focalizzato, energetico e convincente, senza cali di tensione - tanto che anche l'ultimo brano ("Beats workin'") è un gioiellino di hard rock, cabaret e istrionismo.