Black Lips - ARABIA MOUNTAIN - la recensione
Recensione del 06 giu 2011 a cura di Marco Jeannin
        Voto 8/10    
  
      C’è chi crede che il modo migliore di mettere la testa a posto sia, per la gioia delle mamme, sposare la fidanzata di una vita, e c’è chi si affida a 
    
     
 
Mark Ronson
. Questione di punti di vista. I 
Black Lips
 non hanno preso collettivamente moglie, ma hanno scelto Ronson come produttore del loro nuovo lavoro “Arabia Mountain” subito dopo aver sentito “Back to black” di 
Amy Winehouse
, con l’obiettivo di dare finalmente una direzione ben precisa ad un sound che nel giro di sei anni (dal 2003 al 2009) ha generato, allo stato brado, la bellezza di cinque album (più un live). Blues, vintage rock, (flower) punk, country e psichedelia sono le basi da cui si partiva. Il pop, incredibilmente, sembra essere il punto di arrivo. Che detto così fa un po’ paura, ma state tranquilli: i Black Lips non sono diventati una pop band. Però qualcosa è cambiato, e il cambiamento è dovuto senza dubbio alla presenza di Ronson in cabina di regia: “Sapevamo che poteva aiutarci nell’ottenere quello che cercavamo. Non volevamo fare la figura dei puristi che si limitano a copiare fedelmente un vecchio sound. Di sicuro però esistono delle tecniche di registrazione che si usavano in passato e che ci sono sembrate interessanti e adatte per essere inserite in un contesto più attuale. E lui ha capito subito di cosa avevamo bisogno”. Per “Arabia mountain” i Black Lips hanno passato in studio, più precisamente ai Metrosonic Recording Studios di Brooklyn, la bellezza di un anno e mezzo, contro le poche settimane dedicate agli album precedenti. Un lavoro meticoloso ma necessario, almeno secondo Cole Alexander, voce e chitarra della band: “Arrivati al sesto album, volevamo espandere i nostri orizzonti, sperimentando nuovi suoni con l’aiuto di un vero produttore, e contemporaneamente crescere come band senza doverci allontanare troppo dal nostro stile”. Il risultato? Alle due chitarre, al basso e alla batteria, Ronson affianca i sassofoni di Cochemea Gastelum e Ira Raibon e la sega ad arco di Dale Stuckenbruck, e sui sedici pezzi in scaletta mettono mano ben cinque tecnici del suono diversi. Un pasticcio? Niente affatto. “Arabia mountain” è il più maturo degli album dei Black Lips e, incredibile ma vero, suona come un disco di almeno cinquant’anni fa. Pesca da tutti, ma senza fare il verso a nessuno. Benché ancora di base legato allo spirito punk di “Black Lips!” e “We did not know…”, il sound è più pulito e curato, la melodia immediata ed efficace. Un processo di affinamento sonoro intrapreso dai Black Lips già da “Good bad not evil” in poi (vedi “O Katrina!”), che se da una parte potrebbe lasciare con l’amaro in bocca i fedelissimi delle ballate stonate, lisergiche e lo-fi tipo “Stone cold”, “Down and out” o l’eccezionale “Hippie, hippie, hoorah”, dall’altra permetterà senza dubbio alla band di conquistare nuovi lidi fino ad ora inesplorati. Spettacolari i due singoli, “Go out and get it” e “Modern art”, ancora meglio la track d’apertura “Family tree” (a quanto pare nata dopo aver sentito una traccia folk boliviana su una compilation prodotta dalla Dust-to-Digital, un’etichetta di Atlanta), un pezzo da poter consumare a ripetizione senza paura di rovinarlo. Pop allo stato puro: pulp, psichedelico, grezzo, vintage e imbevuto di punk fino al midollo, ma sempre e comunque pop. “Spidey's curse” è sostenuta da un arpeggio surf beatamente 
    
     
 
beachboysiano
 mentre il sax pulp di “Mad dog” e le chitarre acide di “Mr. Driver” rimpolpano la tradizione delle ballate “storte”, già citate, tipiche dei primi Black Lips. E ancora: ci sono quintali di 
Beatles
 in “Bicentennial man”, i 
Ramones
 che fischiettano in “Raw meat” e “New direction”, i 
Clash
 in “Bone marrow”, gli 
Stones
 in “Dumpster dive”, Bobby Fuller in “Don’t mess up my baby” e via così. Volendo si potrebbe continuare all’infinito in questo gioco di rimandi, o comunque almeno fino alla conclusiva “You keep on running”, chiusura fin troppo allucinata, apparentemente fuori quadro, ma che in realtà, da brava eccezione conferma quanto detto sopra: che “Arabia mountain” è un disco pop, per quanto pop possano essere i Black Lips. Che nonostante questa sia la novità più gustosa, qualcuno faticherà comunque a digerirla. E che iper produrre un disco, non è sempre un male: arrivati al sesto tentativo e dopo anni di bagordi, abbandonare un (non) metodo di lavoro per affidarsi a una guida scrupolosa come Mark Ronson, è stata una mossa pericolosa ma, visti i risultati, azzeccata. Perché a volte, mettere la testa a posto è il rischio maggiore che si possa correre: o si scoppia del tutto, o si finisce con il diventare grandi.