Anvil - JUGGERNAUT OF JUSTICE - la recensione

Recensione del 16 mag 2011 a cura di Andrea Valentini

A molti sarà capitato - crescendo - di trovarsi un conoscente che sembra avere fatto il proverbiale patto col diavolo stile Dorian Gray; una persona che, alla faccia del tempo che passa, resta sempre identica: non conosce rughe o adipe, stempiature o capelli grigi. E, solitamente, è un individuo un po' - mi si perdoni la sfumatura poco politically correct - tardo... eterno adolescente o quasi, senza pensieri, capace di progettualità primordiale o nulla, e spesso anche piagato da una sorta di arroganza aggressivo-passiva che lo porta a considerarsi perfetto così come è.

Ebbene, gli Anvil sono il corrispettivo di queste persone - senza l'elemento dell'arroganza (una band più umile di loro è difficile da scovare) - e da circa 35 anni martellano implacabili, uguali a se stessi, l'incudine del true metal. "Juggernaut of justice", quindi, nonostante sia il quattordicesimo album dei canadesi, suona esattamente come il secondo, o il terzo... quasi come se si trattasse di vecchi nastri tenuti nel cassetto per una trentina d'anni. Ogni riff è implacabilmente etichettabile come heavy metal anni Ottanta, con qualche spruzzatina di proto-thrash (non dimentichiamo che gli Anvil, coi loro primi due album, ispirarono i maestri del thrash metal a stelle e strisce) e di speed: insomma, esattamente quello che da sempre ci si aspetta vedendo un disco di Lips e compagni.
Vi starete ora chiedendo se vale la pena sborsare qualche decina di euro per accaparrarvi questi 12 brani. La risposta è che tutto dipende da quanto siete affezionati alle sonorità di tre decadi fa; se da metallari quarantenni o quasi gradireste una macchina del tempo per riassaporare quegli anni, "Juggernaut of justice" è da avere. Così come se, nonostante l'età più giovane, siete stati travolti dal revival dell'Eighties metal. Se, invece, amate l'evoluzione e le sorprese, qui avete ben poco di cui godere; premesse e promesse non sono mancate, visto che Lips, per un paio d'anni, è andato in giro dicendo di avere "inventato" un nuovo genere chiamato metal-jazz... ma all'atto pratico tutto si esaurisce nella presenza di un brano ("Swing thing") con guizzi vagamente jazzati, che ricorda più i King Crimson dopo tre giorni di Oktoberfest passati in compagnia dei Running Wild, che non un nuovo genere musicale.

Al netto di queste considerazioni, ciò che resta è un buon album in tipico stile Anvil, senza pretese e sanguigno - o, quantomeno, onesto. La buona produzione è un plus, anche se di sicuro non farà cambiare idea ai detrattori, ma neppure ai fanatici del gruppo. Ognuno, insomma, resterà sulle proprie posizioni, saldo, come del resto fanno gli Anvil stessi da sempre.
Divertente, ben realizzato e godibile. Ma non indispensabile. E, soprattutto, vien da pensare per quanto ancora Lips e i suoi due compari riusciranno a viaggiare sull'onda del bellissimo documentario che li ha rilanciati nel 2008 ("The story of Anvil")... prima o poi a spinta finirà e, con le premesse che conosciamo, ci sono tutti gli indizi per prevedere un plausibile ritorno all'anonimato del gruppo. Come si diceva una volta: "uomo avvisato, mezzo salvato".

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