Latin Playboys - DOSE - la recensione
Recensione del 13 mag 1999
All'inizio i Latin Playboys non erano altri che i due principali songwriter dei Los Lobos, David Hidalgo e Louie Pérez con il produttore Mitchell Froom (Del Fuegos, Richard Thompson, Suzanne Vega, Bonnie Raitt Ron Sexsmith e un'infinità d'altri) e il suo ingegnere del suono (nonché a sua volta produttore dei Soul Coughing), Tchad Blake a lavorare per creare le basi di “Kiko”. Un disco fondamentale nell'economia del rock'n'roll degli ultimi dieci anni per la varietà dei suoni (dalle orchestrazioni swing anni Quaranta alle canzoni al confine tra Messico e States), ma anche per la complessa gestazione: l'idea del primo album dei Latin Playboys nasceva proprio dalle session preparatorie a “Kiko”. Un sound minimalista, percussivo, informale, con chitarre lancinanti e vecchi organi a contendersi le melodie. Una ricerca soprattutto nei ritmi che deve aver coinvolto i partecipanti più di una semplice session: così il progetto Latin Playboys ha avuto un seguito ed è cresciuto nell'intervallo tra un disco e l'altro dei Los Lobos, come tutti le iniziative parallele alla band (dal disco solista di Cesar Rosas, “Soul disguise” al progetto Houndog). Volendo, il secondo capitolo dei Latin Playboys, “Dose”, è ancora più sperimentale: gli spazi strumentali si sono allargati, le sonorità si sono fatte ancora più aspre e rarefatte eppure le canzoni continuano ad emergere da un melting pot bollente di lingue (spagnolo e americano che si confondono), idee musicali (dalla colonna sonora al rock'n'roll), illustri partecipazioni (Jerry Marotta alla batteria, Wendy e Lisa alle voci, Tracy Bonham al violino) e rumorismi offerti da una strumentazione prossima al collasso. Piaceranno a Tom Waits (c'è più di un punto di contatto tra i Latin Playboys e “Bone machine”), agli sperimentatori, ai fans irriducibili dei Los Lobos e a chi cerca un sound grezzo, crudo e senza mezzi termini. In “Dose” c'è solo quello.