Una volta si partiva mirando in alto, con dischi ambiziosi e oscuri, che piacevano solo a pochi critici. Poi si scendeva a più miti pretese, e i suddetti critici indignati accusavano gli artisti di essersi "venduti" e aver "tradito". Ormai dobbiamo abituarci a vedere il contrario: si parte con dischetti di facile consumo, e poi si arriva a lavori decisamente sofisticati. Ragion per cui, trattenetevi dallo sputare su Spice Girls e Backstreet Boys, perché tra sei-sette anni acquisterete i dischi loro o dei loro transfughi, giunti a maturità artistica e concettuale...
Ad esempio, tutto avremmo pensato, tranne che di ascoltare un disco così, su unetichetta indipendente, da parte della pupattola australiana di "I should be so lucky" e "Tears on my pillow". Dimenticatevi quelle canzonette senza nerbo: la Kylie di oggi è una delle poche cantanti a dare ragione del termine "pop": più degli U2, avrebbe avuto il diritto di intitolare così il disco, invece che col solo nome e cognome - a dir la verità, il titolo originale e la copertina prevedevano la Nostra nei panni di una "Impossible Princess". Poi, come forse sapete, la Principessa Diana ci ha lasciati, e la cosa non è parsa opportuna.
Tornando al disco, è davvero mica male. Senza gettarsi a capofitto in una sorta di "indie"gestione tanto per rifarsi una verginità, rinnegando il passato da hit-parade, la ormai trentenne star della videomusica riesce a mostrare la vitalità e le potenzialità di un genere passando da suggestioni alla Massive Attack (opera dei Brothers in Rhythm) al rock caramelloso di "I dont need anyone", e poi ancora agli ammiccanti graffi di "Some kind of bliss" (entrambe scritte in collaborazione con James Dean Bradfield dei Manic Street Preachers) fino a farci ipnotizzare da "Breathe". E allora, pure questo ci tocca, di ricrederci su Kylie Minogue: questo è il disco che ci aspettavamo da Madonna e che Madonna probabilmente non farà mai. O dovremo ricrederci ancora?