Eric Clapton - PILGRIM - la recensione

Recensione del 25 mar 1998

Il blues si può scrivere o, come avviene nella maggior parte dei casi, si può interpretare. Per suonarlo bene, però, bisogna AVERLO. A quel punto, la musica scorre e le emozioni prendono forma - nel caso di Eric Clapton, non sempre la forma delle dodici tipiche battute che i suoi fans più hardcore vorrebbero ascoltare da lui.

"Pilgrim", in tal senso, non potrebbe essere più distante dagli apici di "From the cradle" (a ben vedere, un’operazione alla Blues Brothers di minore profilo: una rivisitazione di alta classe della musica dei padri e l’amore a prima vista che scatta nelle nuove generazioni che non la conoscevano). E’ blues, quello del nuovo album di Clapton, nel senso letterale del termine: Eric soffre, si arrovella e si interroga ma, invece di lasciare la parola alla chitarra, stavolta ha scritto molto (tutti i pezzi ad eccezione di "Born in time" di Bob Dylan e di "Going down slow", un classico di St. Louis Jimmy) ed ha portato la sua voce a livelli effettivamente inattesi per gridare quello che sente (si ascolti "One chance", ad esempio).

"My father’s eyes", dedicato tanto al figlio Conor quanto al padre mai conosciuto, è emotivamente "Tears in Heaven II" e, grazie al bagno di pop, finirà per influenzare il timbro generale di "Pilgrim" - il che non è necessariamente un bene. Sono preferibili, all’interno dell’album, episodi come "Circus", con quel suo groove reggae e la sua slide guitar; "River of tears", ballata intensissima e commovente; "Sick and tired" (le dodici battute, finalmente!). Dopo qualche ascolto, rileggendo la partnership di Clapton con Simon Climie alla stesura dei brani, pare manifestarsi - almeno nelle intenzioni - la velleità di un progetto improntato al modello della world music: difficilmente, altrimenti, potremmo spiegare la coesistenza di accenti elettrici ed acustici, di blues e echi latini, di delicati archi affiancati alle sferzate della chitarra. Il tentativo è apprezzabile, anche se il risultato finale consegna un profilo sonoro non del tutto omogeneo: certi arrangiamenti levigati sono spesso superflui, almeno quanto gli onnipresenti coretti; episodi musicali di alto livello fanno a pugni con strizzatine d’occhio a Phil Collins e Sting; la chitarra è spesso in secondo o terzo piano. Passare dal r’n’b alla musica elettronica nello stesso disco non deve essere facile per nessuno, certo, ma a Eric chi glielo fa fare?

"Pilgrim" non è per chi ama il chitarrista, ma per chi ama l’uomo, oltre che Phil Collins e Sting. E, se una ciambella non riesce perfettamente con il buco, evitiamo di dire che siamo al disco della maturità, altrimenti B.B. King cosa dovrebbe dire?

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