Lyle Lovett - NATURAL FORCES - la recensione

Recensione del 17 dic 2009

Un uomo (probabilmente a cavallo) col capo coperto da uno Stetson, un immenso cielo di nuvole sopra la testa. E’ il Texas, bellezza, e quell’uomo è Lyle Lovett, il lungagnone coi tratti sghembi da fumetto che fecero innamorare Julia Roberts e (artisticamente) il regista Robert Altman. “Natural forces”, il suo ultimo disco, si trova nei nostri negozi solo d’importazione: quell’immaginario western, da noi, fa presa ormai solo su uno sparuto gruzzolo di americanofili. Ma è un peccato, Lovett non è mica Garth Brooks o Tim McGraw, la sua natura da cowboy è bilanciata da un’irresistibile vena di ironia e da un’eleganza fuori dal comune. Insomma: nessuno indossa il cravattino di cuoio e imbraccia la chitarra acustica come lui. E’ un tradizionalista verace, ma modernamente versato nel minimalismo: canta di stalloni e di praterie (“La mia casa sta dove sta il mio cavallo”, così nella title track) ma il suo country&western non ha nulla di retorico e della cartolina illustrata, illuminato com’è da uno sguardo acuto e affettuoso, eccentrico e surreale alle piccole esistenze comuni (sarà anche che in Texas tutto è larger than life, e anche la vita quotidiana può assumere dimensioni epiche).
Country&western, dicevamo: sì, perché “Natural forces” si tiene in disparte dai suoni scoppiettanti da big band dell’ultimo “It’s not big, it’s large” (2007), smarcandosi dal jazz e dal gospel per tornare sui sentieri polverosi dei primi dischi e dell’ultimo “My baby don’t tolerate” (2003). Tutto apparentemente immutabile, sotto il grande cielo texano: dalle copertine in bianco e nero ai musicisti di classe mondiale di cui il leader si circonda (il violino di Stuart Duncan, la batteria di Russ Kunkel, il basso di Viktor Krauss, il mandolino di Sam Bush, la preziosa chitarra elettrica di Dean Parks, lo straordinario pianoforte di Matt Rollings) passando per gli autori preferiti, con l’immancabile omaggio al grande connazionale e beautiful loser Townes Van Zandt di cui Lyle riprende stavolta “Loretta”, ode struggente a una “ragazza da sala da ballo”. Impeccabile, non c’è bisogno di dirlo, perché Lovett è un maestro nella dizione e nella gestione della limitata estensione vocale a disposizione e il resto lo fanno gli strumentisti e la canzone. Tra il disco di inediti e la raccolta di cover (come la doppia antologia texana del 1998, “Step inside the house”), il Nostro stavolta sceglie la via di mezzo: cinque originali e sei reinterpretazioni, privilegiando nettamente le atmosfere acustiche e le ballads rarefatte, i colori nitidi e tersi delle “forze naturali” da cui ammette di essere soggiogato. E’ tornato alle radici, Lyle, via dalla pazza Hollywood che per qualche tempo lo aveva tentato offrendogli cameo cinematografici e gloria in surplus. Si è rimesso a cantare di indiani e di cowboys, di camion e di puledri, di autostrade e praterie circondato da violini e da lap steel, da plettri e da tasti sempre usati con parsimonia contadina.
Eric Taylor, Vince Bell, David Ball, Don Sanders, autori da noi pressoché sconosciuti, gli offrono il destro per ragionare d’amore perduto e coltivare nostalgie, tra una canzone del bayou e un’ode al sole, alla luna e alle stelle, il jazz blues di “Bohemia” e ballate assolate color ocra. Il tono è sommesso e raccolto, ma siccome il sangue texano non mente Lovett dispensa anche momenti di divertimento: “Farmer Brown/Chicken reel”, rielaborazione di un brano tradizionale, è una danza spensierata tra i polli dell’aia, mentre in “Pantry” (due versioni: una elettrica e una “unplugged”) il cantautore gourmant filosofeggia di cibo, amore, sesso e tradimento a tempo di classico western swing cogliendo l’occasione per magnificare le delizie culinarie del Texas (mah…) cui il protagonista giramondo anela anche dopo aver assaggiato le salsicce di Danzica, le patatine fritte francesi e “i meloni di Verona”. Il tema del viaggio e della nostalgia di casa è ricorrente, e con il compatriota Robert Earl Keen Lovett si concede anche una scherzosa riflessione sulla dura vita del rocker, interrompendo una lunga sequenza di tempi lenti e meditazioni intimiste. E’ uno stilista, un orafo che continua a levigare la stessa pietra preziosa e questo può anche essere il suo limite. Probabilmente non è il suo disco migliore, “Natural forces”, e non tutto è sul livello della splendida title track (ancora meglio nella versione più elettrica presentata recentemente al Late Night di David Letterman: cercatela su Web). Vale comunque la pena di rintracciarlo e di ascoltarlo, scaldandosi nell’attesa del raro concerto che il prossimo 2 febbraio terrà al Conservatorio di Milano in compagnia di un altro splendido outsider della musica americana, John Hiatt.

(Alfredo Marziano)

Tracklist

01. Natural forces
02. Farmer Brown/Chicken reel
03. Pantry
04. Empty blue shoes
05. Whooping crane
06. Bayou song
07. Bohemia
08. Don’t you think I feel it too
09. Sun and moon and stars
10. Loretta
11. It’s rock and roll
12. Pantry (acoustic version)

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