Finley Quaye - MAVERICK A STRIKE - la recensione

Recensione del 04 mar 1998

Occhio a questo Finley Quaye. E’ un avvertimento che vale anche per lui: che faccia attenzione a se stesso; ha talento, e ci dicono mirabilie delle sue capacità "live". Il problema è che probabilmente non gliene frega niente. Il giovane Finley ha l’aria di quei calciatori capaci di grandi giocate che dormono per gran parte della partita e sfidano la pazienza dei loro tifosi. Il suo primo disco "Maverick a strike" lo rappresenta bene: è un viaggio nella musica nera che salpa da porti dub ("Sunday Shining", il brano che lo ha lanciato, è preso a prestito da Bob Marley) per fare tappa su isole visitate a suo tempo da Sam Cooke e Otis Redding (vedi la hit radiofonica "Even after all"), e persino da Hendrix. Se proprio vogliamo, gli manca il grido selvaggio di Wilson Pickett per essere perfetto: "Ride on and turn the people on" si avvicina al litorale, ma poi decide di fare vela altrove. Pigrizia, a volte perfino divertita e narcisista, come nella bellissima "It’s great when we’re together".

Con il procedere del disco peraltro il viaggio si fa meno solare e più introspettivo, il che sembra rispondere anche al modo di essere di Quaye e alla stessa tecnica dub: cercare le parole intanto che si canta, fino a isolare il concetto finale - è il caso di "Falling", dove solo alla fine il lamento "Solitude setting" definisce il tutto. Ma Finley il marinaio non sembra fare i conti volentieri con certe zone d’ombra musicali: forse tanta indolenza gli impedisce di scavare a fondo nelle proprie vibrazioni meno positive, di credere in brani come "Supreme I preme" dove un’idea musicale che potrebbe scuotere la terra viene sepolta in una profonda caverna. Anche qui, pigrizia? O spalle non abbastanza robuste?

In conclusione, per ora il brigantino ci porta una robusta dose di momenti più che felici, con merci e manufatti di prim’ordine, e non solo per gli amanti degli echi caraibici. Ma dai prossimi viaggi di Quaye ci aspettiamo maggiore chiarezza su quegli atolli dimenticati dove forse si trova il vero tesoro: il rischio che corre è di diventare il nuovo genietto usa-e-getta della black music (alla Terence Trent D’Arby, per intenderci) cui inneggiare giusto per una estate. E non se lo merita.

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