Doves - KINGDOM OF RUST - la recensione

Recensione del 10 apr 2009 a cura di Franco Bacoccoli

“Ci sono stati certi giorni, in studio”, ha detto Jimi Goodwin, cantante e bassista dei Doves, “in cui ci chiedevamo se saremmo mai riusciti a finire. Ci sono state cose toste nelle nostre vite. Cose di famiglia. Ci sono state delle morti, malattie, e anche una lunga relazione che è terminata. E’ stata veramente dura. Ma adesso posso dire che, se non avessimo fatto questo disco, sarei uscito di testa”. Il trio di Manchester torna con “Kingdom of rust”, successore di “Some cities”, album entrato direttamente al primo posto nella classifica britannica del febbraio 2005. Ed improvvisamente è la maturità. Non che le precedenti 3 prove dei tre, tutti ormai più vicini ai 40 che non ai 30 anni, fossero state collezioni di canzoni registrate da iperentusiasti adolescenti foruncolosi. Ma questo è veramente un altro mondo. Non è però il genere di maturità che ti aspetti dall’ennesimo disco di Bob Dylan o dal nuovo album di Van Morrison, cioè una maturità bella ma prevedibile; qui c’è ancora senso di eccitazione, questi sono uomini finalmente e totalmente in possesso delle loro migliori qualità, è il primo capitolo di un nuovo e grande libro sonico. C’è senso –non noioso- di introspezione, ci sono canzoni letteralmente senza tempo (elemento raro) e soprattutto c’è sensazione di spazialità, di cieli aperti, di grandi possibilità, di vastità. Se c’è un favore che si può fare ai Doves è quello di non definire “Kingdom of rust”. Certo, è un album pop-rock ma che vive in una dimensione atemporale. Vengono in mente le ultimissime cose dei Talk Talk, in ambito musicale, e “Una stagione all’inferno” di Rimbaud, in campo letterario.

”Jetstream” è un pezzo trattenuto, sognante, fuori dalle mode, fuori dalle nazionalità e forse anche fuori da questo mondo. Una cavalcata verso regioni inesplorate. “Kingdom of rust”, su incedere stranamente country’n’western (loro sornionamente lo chiamano Lancashire Western e non disdegnano una strizzata d’occhio a Sergio Leone), è un pezzo che proviene dal 1989 ma anche dal 2029. “The outsiders”: da una iniziale quasi cacofonia emerge un rock pulsante ma non aggressivo, robotico, con blandi riferimenti Seventies. “Winter hill”: cinque minuti in compagnia di un pop-rock veramente originale, ideale accompagnamento di una notte tra un locale e l’altro. Solido l’impiantito melodico, il resto è un trip. “10:03”: composizione che travalica i generi, chiude le classificazioni in un armadietto trasparente e getta la chiave. Non si sa dove aggrapparsi, se proprio vi fosse bisogno, per provare a descrivere “The greatest denier”; assenza praticamente totale di rimandi. “Birds flew backwards” è un lavoro largo che si abbevera da fonti inesplorate. “Spellbound”: in un lamento vagamente radioheadiano si fa largo una chitarra evocativa che si perde tra i campi del Cheshire, dove “Kingdom of rust” è stato registrato in una vecchia fattoria riconvertita. “Compulsion” inizia con un basso inaspettatamente funkoso; una “Heart of glass” dei Blondie rivestita con mantelli di futuro. “House of mirrors” è stralunata, urgente, ritmata, mentre “Lifelines” è probabilmente la prima canzone del 2010. Album straordinario.


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