Ministri - TEMPI BUI - la recensione

Recensione del 06 mar 2009 a cura di Giuseppe Fabris

A voler cercare di attribuirgli qualche capacità divinatoria potremmo affermare con sicurezza che i Ministri ci avevano visto ben lontano quando, due anni fa, cantavano "I soldi sono finiti" e regalavano un euro ad ogni acquirente del loro disco di debutto.

Ma la verità è un'altra, sin dagli esordi la band milanese ha dimostrato di saper coniugare un rock potente con testi che frugano nelle tensioni economiche e sociali dell'Italia di questi "anni zero".
Con l'EP "La piazza", con cui hanno inaugurato il loro rapporto con la Universal, ci aveva riempito di ottime speranze; poi la band aveva aumentato la posta in palio affermando, in un'intervista a Rockol, che il secondo disco avrebbe rappresentato il punto cardine della svolta artistica.
E' con queste premesse che abbiamo accolto "Tempi bui": undici brani intervallati da altri cameo di musica etnica sia regionale che estera che sembrano non voler farci scordare qual è il mondo che ci circonda.
Il primo brano, la titletrack, sembra subito rispondere ai dubbi accumulati nell'attesa: un brano rock in cui i Ministri rimodulano il loro sound su atmosfere di ampio respiro confermando l'ottima scrittura con un testo che definisce con poche frasi i "tempi bui" che i tre ragazzi sentono nell'aria. Un inizio fulminante che viene immediatamente spazzato via dalla rabbia di "Bevo" un urlo contro l'ipocrisia nei confronti dell'abuso di alcol che conferma la potenza di questa band.

Le carte in tavola cambiano ancora con il reggae-rock "Il futuro è una trappola" e la finta estate raccontata da "La faccia di Briatore", prima pecca di questa band che su un brano simil-estivo si scaglia inutilmente sul "bersaglio grosso" perdendo tutto l'intuito e l'ironia dimostrata fino ad ora.
Per dimenticare questo passo falso ci basta passare al brano successivo, l'urlo disperato di "Il bel canto" ci restituisce i Ministri tesi e lucidi che ritroviamo anche in "La casa brucia" e la splendida "Diritto al tetto", singolo che ha preceduto la pubblicazione di questo disco.
Se "Berlino 3" contiene il testo più bello del disco ("Lascia che ci sia un padre, sopra di noi, che si batta il petto e si chieda perché dovrà seppellirsi da sè"), con "Vicenza (La voglio anch'io una base a)" tornano a preferire le parole grosse e i chitarroni, lasciando per il finale il momento più intenso.
"La ballata del lavoro interinale" conferma come questa band sia riuscita a crescere in così poco tempo. Non parliamo però di svolta musicale, per quello ci vorrà ancora qualche anno passato tra palchi e studio: nel frattempo consigliamo loro di avere più fiducia nelle capacità espresse in questo ottimo disco.


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