Sul finire del 2007, questo è uno dei pochi dischi che sembra aver messo tutti d’accordo: la critica internazionale che lo ha votato in massa nei referendum di fine anno, il pubblico che lo ha acquistato spingendolo alto in classifica (fino al numero 2, negli Stati Uniti: bel colpo per la Rounder, indie rigorosa specializzata in roots music). C’entra sicuramente la perfetta e chissà quanto casuale scelta di tempo, la quasi contemporaneità con la chiacchieratissima reunion degli Zeppelin che ora però intralcia i piani di un tour mondiale del restaurato Dirigibile. Ma c’è di più, naturalmente, e “Raising sand” sprigiona un’aura magica di suo, come un progetto ben studiato a tavolino che va in porto per fortunate coincidenze astrali. Funziona più o meno tutto, qui: l’inedita, inattesa e sorprendente alchimia tra l’ex “dio dorato” dell’hard rock e la principessina del bluegrass (incrociatisi tre anni fa sulla strada di Leadbelly, a un concerto-tributo organizzato dalla Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland), la scelta sfiziosa e attenta del repertorio, la backing band esemplare guidata dalla chitarra rarefatta di Marc Ribot, i suoni curati dall’infallibile T Bone Burnett di “Oh brother, where art thou?”, “Cold mountain” e “Walk the line” (la cinebiografia di Johnny Cash) che sul disco mette la sua firma inconfondibile. Lui e Plant, due enciclopedie musicali viventi, si saranno divertiti a piluccare con cura le canzoni da includere nella raccolta, e va loro riconosciuto il merito di non aver badato solo al gusto personale (con un pizzico di nepotismo: “Sister Rosetta goes before us” è un nuovo parto della ex moglie di Burnett, Sam Phillips) ma anche alla ricerca di linee melodiche, scansioni e atmosfere adatte all’incontro tra le due voci a disposizione. Così “Raising sand” diventa un viaggio nel tempo e nello spazio, tra r&b di New Orleans e folk dei Monti Appalachi, rock&roll primordiale (quello dell’ “altro” Sam Phillips, titolare dei Sun Studios di Memphis) e country & western, la struggente poetica loser di Gene Clark, Townes Van Zandt e Tom Waits (una spettrale “Trampled rose”) e una pagina dimenticata del canzoniere Page/Plant (una delicata “Please read the letter”, meglio così che con le chitarre elettriche di “Walking into Clarksdale”). Nella scelta ruvida e parsimoniosa dei suoni, che sottende in realtà un’operazione di grande finezza intellettuale e musicale (Burnett è sempre abilissimo nel confezionare finta arte povera) ci guadagna il fascino evocativo delle canzoni: perché, come spiegava Miles Davis, nella musica i silenzi e i vuoti sono importanti quanto le note che si decide di suonare. Stando attenti a evitare le tipiche trappole del duetto, abusatissima scorciatoia musicale che di solito serve solo ad accalappiare i fan dell’uno e dell’altro e come pretesto per rivaleggiare in inutili gorgheggi, qui i due protagonisti si concedono generosamente spazio, rispettano tempi e ruoli, rinunciano a egoistiche esibizioni di virtuosismo: mai sentito un Plant così misurato e sussurrante, dedito al contrappunto, attento a non sopraffare la partner (e pensare che l’ego non gli ha mai fatto difetto: vengono in mente le immagini di “The song remains the same”, il film degli Zeppelin appena rimasterizzato in dvd); mai ascoltata prima una Krauss così avventurosa e lontana dai suoi cliché, le corde del violino pizzicate solo quando è necessario, tutta tesa alla ricerca della migliore espressività vocale. Il passo è mediamente lento (gli ascoltatori meno pazienti sono avvertiti), l’atmosfera prevalentemente ipnotica, talvolta onirica: “Rich woman” è un voodoo blues neorleansiano di percussioni scheletriche e chitarre sature di vibrato, “Killing the blues” un esempio perfetto della seduzione delle harmony vocals, “Your long journey” un Doc Watson d’annata resuscitato con il flatpicking nobile di Norman Blake e l’autoharp di Mike Seeger, fratellastro di Pete. “Nothin’” di Van Zandt e “Polly come home” di Clark sono due tuffi nel più poetico e malinconico mal di vivere, ma il versante luminoso e sbarazzino del disco non è meno prodigo di piccole delizie: si batte il piedino con l’hillbilly di “Let your loss be your lesson”, si rivive la febbre del beat con la “Fortune teller” già nell’antico repertorio di Stones e Who, si materializza il fantasma del rockabilly stile Sun Records in una irresistibile versione della “Gone, gone, gone” degli Everly Brothers. Come dite, è tutta roba vecchia? Ma il vocalist degli Zeppelin lo sa da sempre che la canzone rimane la stessa, e che è il passato a indicare la strada del futuro. Fortuna che ultimamente ha ripreso a ricordarsene.
(Alfredo Marziano)
Robert Plant - RAISING SAND - la recensione
Recensione del 15 gen 2008
Tracklist
01. Rich woman
02. Killing the blues
03. Sister Rosetta goes before us
04. Polly come home
05. Gone, gone, gone
06. Through the morning, through the night
07. Please read the letter
08. Trampled rose
09. Fortune teller
10. Stick with me baby
11. Nothin’
12. Let your loss be your lesson
13. Your long journey