Così in quest’album minimal a partire dalla grafica di copertina e del libretto, che nelle intenzioni originarie doveva essere del tutto self-made e poi, per la strada, si è un pochino raffinato, troviamo undici canzoni che fotografano il Luca Urbani del 2007. Lo fotografano come il giovane uomo che è; un tizio che agli anni di Cristo sceglie di portare sulle spalle la sua personale croce sottoforma di un disco sincero, assolutamente non-furbo, fedele a se stesso, curato, originale. Il rischio solipsismo/isolamento è in agguato, come in tutte le operazioni molto (troppo?) autoreferenziali, ma è un prezzo da pagare per chi come Urbani non ha voglia di piegarsi alle regole di ciò che è molto (troppo?) pop.
Non ascoltate questo disco se siete inclini alla depressione, ma se non è un periodo particolarmente negativo e se siete (anche solo vagamente) interessati all’elettronica invece compratelo, è una buona occasione per (ri)scoprire un genere e un autore che hanno ancora qualcosa da dire. Brani vincenti: il singolo “Top song”, e poi “Festa borghese” e “Il mondo è uno slogan”, ottimi spunti per riflettere – ogni tanto non fa male – su quello che succede oltre la porta di casa.