Nas - HIP HOP IS DEAD - la recensione

Recensione del 22 feb 2007 a cura di Lisa Molinari

“Tutti suonano uguali, il gioco si è commercializzato” rappa Nas nella title track dell’album “Hip hop is dead” parafrasandone il titolo. Nell’ottavo album della sua carriera, inciso a quasi trent’anni dal primo disco hip hop della storia (“Rapper’s delight” della Sugarhill Band), a Nasir Jones sembra naturale riflettere sullo stato dell’arte e per questo lo fa senza risparmiare pessimismi sensazionalisti, come nel brano appena citato, elargendo omaggi a pionieri e meteore del passato come nel pezzo “Where are they now” - costruito su un emblematico campionamento di James Brown - e indulgendo in nostalgici sentimentalismi quale la struggente “Can’t forget about you”, dove vecchie registrazioni di Nat King Cole si mescolano alla voce vintage di Chrisette Michelle dando origine a uno dei lavori più riusciti dell’album.

Gettato lo sguardo di rigore al passato, la prospettiva si trasferisce al presente, come si addice al primo lavoro che Nas pubblica per l’etichetta Def Jam sotto la supervisione di Jay Z. Immancabile, quindi, l’attesissimo duo con l’ex rivale di rime in “Black republican”, dove i due titani dell’hip hop alternano le loro voci in un crescendo sostenuto musicalmente da stralci della colonna sonora de “Il Padrino II” con il risultato di affermare la propria influenza sulla scena e riconoscere, di conseguenza, il proprio ruolo nel music business. La consapevolezza dei compromessi che la carriera musicale comporta riecheggia in “Not going back” e “Carry on tradition”, dove Nas ammette esplicitamente: “Eravamo il segreto del ghetto, non riesco a decidere se vorrei esserlo ancora o se preferisco che tutto il mondo ci conosca”. Opzione obbligata, quest’ultima, che sembra suggerita dalle collaborazioni ecumeniche dell’album, che coinvolge superstar rappers del calibro di Snoop Dogg - ospite nella godibilissima “Play on playa” su una base di Dre –, un recente fenomeno dell’hip hop qual è Kanye West - che presta voce e campionamenti da abbinare ai gorgheggi sognanti di Chrisette Michelle in “Still dreaming” - e perfino l’idolo pop Chris Webber - che partecipa a “Blunt ashes” come produttore.

Più che un funerale all’hip hop, quindi, l’album di Nas vuole essere un accorato sprone alla ricerca di nuove direzioni creative, anche se i toni e lo stile di questi 16 pezzi possono risultare maggiormente appetibili ai veterani del genere che ai fan dell’ultima ora. La considerazione che sorge spìontanea al termine dell’ascolto è perciò la seguente: se già Common, per primo e in modo magistrale, una decina d’anni fa aveva denunciato la perdita di purezza originaria dell’hip hop in “I used to love H.E.R.”, e nemmeno Nas ci propone più un lavoro innovativo (come il capolavoro “Illmatic” con il quale diventò celebre nel ’94), qualcosa dev’essersi certamente incrinato nella linea evolutiva dell’hip hop, geniale musica del ghetto diventata pop del terzo millennio.

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