“I treni per Reggio Calabria”, primo titolo in scaletta, marca il punto di contatto e insieme la distanza tra adesso e allora: è stato uno dei pezzi chiave di quel disco a quattro mani con De Gregori ma qui, nella versione originale del 1976, corre davvero a velocità doppia, con un’urgenza frenetica e una tensione elettrica prodotta dalla vicinanza di tempo e di luogo con gli eventi che racconta. Altri tempi, sicuro. Ma fino a un certo punto, e la continuità storica e ideale è una delle chiavi di lettura del percorso musicale della Marini, come ben dimostra l’ultimo pezzo in programma, “Voglio miracoli”, datato 2002. Nelle venti selezioni che lo precedono rivive la biografia intensa e la vita davvero “on the road” della protagonista (“Ora è venuta l’ora”); riprende forma, soprattutto, l’Italia violenta e perturbata degli anni di piombo e della strategia della tensione, delle lotte contadine e degli autunni caldi nelle fabbriche, del terrorismo e degli assassinii di stato. Uno scenario drammatico che nelle “cantacronache” della Marini viveva, e rivive, quanto e meglio che in un notiziario d’epoca. Da una prospettiva, oltretutto, diversa: quella dei perdenti, di chi raramente finisce in radio, in televisione e sui giornali, di chi la storia la subisce e non la fa (“Quanto è fatta di paura questa mia immobilità/passerà passerà ma la storia chi la fa?”, recita appunto il testo di uno dei tre inediti inclusi nella raccolta). Ed ecco i protagonisti piccoli e grandi, simbolici ed effimeri, gaglioffi e vittime di allora, il Ciccio Franco del “boia chi molla” e le bombe in Meridione, l’omicidio di Pasolini e la Ulrike Meinhof “suicidata” dai suoi carcerieri nella “Germania che salva il dollaro e salva la lira”; e poi i drammi e le tragedie collettive, quelle legate all’immigrazione e alla povertà (“”Muto Carmè”, asciuttissimo e toccante lamento funebre ispirato al disastro minerario di Marcinelle, è un altro dei pezzi mai pubblicati prima): storie vissute e raccontate con la partecipazione drammatica e concitata di un reporter presente ai fatti, materia viva e sanguinante che la Marini, volente o nolente, affronta con piglio da intellettuale, omaggiando l’amico poeta assassinato al’Idroscalo di Ostia e ispirandosi ad Hemingway per raccontare un noto episodio della guerra civile di Spagna (“Era domenica”). E con uno spirito musicalmente molto, molto avventuroso (per i canoni odierni, figuriamoci per quelli di allora), giocando con la parola e la fonetica, la ritmica e la metrica, la dizione e la pronuncia (si ascolti l’accento colloquialmente romanesco con cui introduce “A Zurigo uno mi dice”). Ci sono clarinetti e trombe, a sottolineare e arricchire le canzoni, violoncelli e contrabbassi eleganti, fughe in free jazz e arpeggi limpidi di chitarra, ma sono le voci umane (tutte femminili) le vere protagoniste: capaci di mescolarsi in polifonie di sapore ancestrale o arditamente avanguardistico (nei classici album del periodo Dischi del Sole come “Correvano coi carri” o “La grande madre impazzita”, “ricerca di fusione sonora tra parlato e suonato”), di ripercorrere le vie antiche dei canti regionali (“’Ntonuccio”) e la dinamica drammaturgia di un tragedia greca (sua vecchia passione), di reinventare il blues afroamericano (l’incipit di “Io ti racconto”) e di esplorare forme inedite, sardoniche e surreali di teatro canzone (“L’utopia” suona come una specie di musical militante). L’avvertenza d’uso è d’obbligo: non tutto risulterà digeribile al primo colpo, per le orecchie addomesticate al fast food dell’industria pop; le voci della Marini e delle sue virtuose collaboratrici (Lucilla Galeazzi, Annalisa e Tata Di Nola, il Quartetto Vocale Passioni) sono fin troppo pure, organiche e naturali per i palati delicati di oggi, abituati più alla margarina che al burro di montagna. Ma vale la pena di provare ad avvicinarsi, perché queste canzoni, come scrive la stessa Marini nelle note di copertina, servono a ricordare un’Italia poco raccontata, e perché nella pappetta omogeneizzata della musica di oggi il “cantautore è diventato un bene prezioso” che “fa la sua musica con la sua testa, con le sue mani, come i biscotti della nonna”. E non c’è neppure bisogno di averli vissuti sulla propria pelle, quegli anni, o di considerare Ulrike Meinhof una martire senza macchia per trovarsi perfettamente d’accordo con lei.
(Alfredo Marziano)