Pensiamo a Carla Bruni, agli Air, a Saint Germain o ai (disgraziati ma geniali) Noir Desir: tutta roba non troppo commerciale e molto interessante.
E’ questo il caso di Camille, già vocalist dei Nouvelle Vague: con pochi mezzi ha fatto un piccolo capolavoro, uno dei dischi migliori dell’anno (in Francia è uscito nel 2005). Il titolo, “Le fil”, è indicativo: tutti i brani sono tenuti assieme da un filo conduttore, una tonalità unica – il si - che non smette mai (e continua anche dopo la fine dell’ultima canzone, quasi si trattasse di un difetto del cd). Un ronzio insistente che riempie i vuoti tra un pezzo e l’altro pur senza affaticare l’orecchio di chi ascolta. Idea meravigliosa che connota un album dal suono scarno, davvero essenziale, con la voce di Camille che domina su tutto senza che lei abbia bisogno di urlare. E che ricorda a tratti, come nella terza traccia (“Assise”) o nella quinta (“Vous”), certi meravigliosi lavori provenienti dall’Europa dell’Est (tipo il Coro delle Voci Bulgare), a tratti le percussioni in stile africano (nella sezione ritmica), a tratti invece qualcosa di decisamente francese (“Janine I”, “Pour que l’amour me quitte”) e che tuttavia è diverso da quanto abbiamo sentito finora: forse perché non fa riferimento ad alcuna immagine nota, perché non evoca un mondo sonoro classico ma è come se fosse sempre spostato un passo
Te la immagini così, del resto, Camille. Una che con la testa sta da un’altra parte. Sulla cover del CD campeggia il suo volto, con questo filo che le passa sotto gli occhi. Ha l’aria scompigliata e assorta, vagamente imbronciata, le spalle nude. Non ha bisogno di niente, solo del suo cantato talmente virtuoso da sembrare irreale (ascoltate “Ta douleur”, uno dei pezzi più belli del disco). E’ coraggiosa al punto da permettersi di spernacchiare tutto e tutti, abbandonando i suoi naturali garbo e grazia per mettersi di colpo a berciare (“Janine II”). Gioca e sperimenta con la voce come solo chi sa il suo mestiere può permettersi di fare, e con “Le fil” ha creato un lavoro difficile da scomporre: i riferimenti (a parte quello, ovvio, alla musica francese) appaiono e scompaiono qua e là, e vengono in mente Björk – di cui però Camille è la versione meno “fredda” – e ancora Tori Amos, in generale il cantautorato femminile “importante” o storico (Edith Piaf). Ma all’ascolto successivo il quadro cambia, muta anche solo col mutare del volume. Il che non è un difetto ma un bene, perché “Le fil” con la sua essenzialità è un lavoro ricco di spunti e sempre capace di emozionare. Sarebbe carino che qualche radio lo passasse, anche se scegliere un brano è difficile (e mettere in airplay l’intero album una chimera…). Peccato per la scarsa attenzione finora riservata a Camille: potrebbe essere una delle più grandi rockstar in circolazione (solo che il mondo ancora non lo sa).