Mark Knopfler - ALL THE ROADRUNNING - la recensione
Recensione del
09 mag 2006
Ci hanno messo la bellezza di sette anni a coronare questo loro piccolo sogno, la chitarra più famosa di Newcastle e la ex bella del cowboy cosmico Gram Parsons: rubando attimi preziosi alle loro agende fitte di impegni per intrufolarsi non appena possibile in uno studio di registrazione con un gruppo fidato di musicisti (i soliti del “giro” Knopfler, Guy Fletcher, Richard Bennett ecc.). Si erano conosciuti in occasione di un programma tv dedicato a Chet Atkins, maestro della chitarra country, si erano piaciuti subito e da allora in fondo non si sono mai persi di vista: le strade si erano incrociate altre volte, ed Emmylou aveva cantato per Knopfler in “Sailing to Philadelphia” (2000). A quelle session risalgono anche due canzoni di questo disco, due
outtakes
che il chitarrista cantastorie aveva conservato pazientemente nel cassetto in attesa del momento giusto. Tutto nel segno della continuità, a dispetto del percorso a singhiozzo che li ha portati fin qui; e dunque poche sorprese, come del resto si addice allo schivo Mark. Un assaggio significativo di “All the roadrunning”, va ricordato, era in circolazione già da tempo, con la title track piazzata a mo’ di esca in fondo a “Private investigations”, la doppia antologia di Knopfler con e senza Dire Straits uscita qualche mese fa: un bel valzerone dal forte sapore irlandese che canta di vagabondaggi e di dura vita on the road, una ballata romantica e malinconica che avrebbe potuto anche uscire dalla penna di uno Shane MacGowan improvvisamente sobrio e ripulito. Non basta però a spiegare un disco che non è country e folk soltanto, quantomeno non nel senso più ristretto del termine, pieno com’è di accenti blues e rock, di aromi di Messico e di Caraibi, di rimandi a quel mondo antico di polvere, praterie, pionieri e storie di frontiera che Knopfler ha frequentato spesso nei suoi ultimi dischi solisti. E che, nel suo universo fin troppo serioso e compassato, introduce anche un gradito elemento di gioco e di divertimento (come ai tempi ormai lontani dei dischi con i Notting Hillbillies e con lo stesso Atkins).
“Mi sentivo come Ginger Rogers a fianco di Fred Astaire” ha spiegato ridacchiando la volpe argentata Emmylou, sottolineando che era Knopfler a tirare i fili e a pilotare le macchine in studio mentre lei se ne stava comodamente adagiata sul sedile del passeggero. Giocano a fare June Carter e Johnny Cash, lei e Mark, anche se tra loro manca qualunque tensione erotica e corrispondenza d’amorosi sensi. Giocano a fare il bandito Jesse James e la sua Belle Star, nell’omonima ballata western con chitarra slide che è uno dei due pezzi firmati nell’occasione dalla Harris. L’altro, “Love and happiness”, è un classico duetto country e un altro esercizio impeccabile di “harmony vocals”: perché è innegabile che quelle due voci si sposano bene, il soprano ancora purissimo di Emmylou che illumina di nuove sfaccettature il mormorio roco di Mark e il suo fraseggio inconfondibile di Stratocaster. E’ la chiave di volta di tutte le canzoni: il solito singolo un po’ alla Dire Straits, “This is us”, veloce e galoppante, e la
mining song
“I dug up a diamond”, lo sferragliante slide blues di “Right now” e l’ipnotica onda reggae di “Rollin’ on”. E delle due
outtakes
di cui si diceva, un tramonto tex mex chiamato “Donkey town” e una square dance per violino e fisarmonica, “Red staggerwing”, in cui i due si paragonano a marche di automobili, di motociclette e di chitarre (Fender & Gibson, naturalmente). Tutti, più o meno, materiali consueti al repertorio Knopfler: ma stavolta, potenza delle umane alchimie, c’è aria fresca, scatta qualcosa in più. “Beyond my wildest dreams”, un po’ Springsteen e un po’ Willy DeVille quando canta Doc Pomus e i Drifters, è un pezzo da antologia, e ci sono anche un paio di richiami toccanti all’attualità, sistemati proprio all’inizio e alla fine del disco: il clima sospeso e tropicale di “Beachcombing” proietta l’ombra scura dello tsunami e dell’uragano Katrina (anche se la scrittura del pezzo, giura Knopfler, ha anticipato le due tragedie), mentre “If this is goodbye” è uno sguardo sobrio. delicato e speranzoso al post 11 settembre, ispirato da un un articolo che il romanziere Ian McEwan scrisse all’epoca per il Guardian. Lo chiude (e chiude il disco) un bel, misurato assolo di chitarra elettrica blues: solido, familiare, riconoscibile, quasi a voler dire che c’è sempre qualcosa a cui aggrapparsi e che la vita, bene o male, continua.
(Alfredo Marziano)