Salutati dai più come una delle rivelazioni del 2006, gli Hard-Fi sono in effetti onesti e sinceri, e mettono assieme un bel lavoro indie, tra pop e ska-punk – anche se il loro sogno non è tanto quello di battere altre piccole band del settore, quanto, se possibile, “vedersela un giorno con Eminem e gente del suo calibro”. Qui ci sono canzoni destinate a diventare classici del genere, come la disco-pop “Tied up too tight”, ma anche pezzi musicalmente più intensi e concettualmente più politici (vedi Iraq) come “Middle Eastern holiday”. E poi brani delicati, e femminili, come “Move on now” (non aspettatevi romanticherie alla Elton John: gli Hard-Fi restano sobri e composti, quando parlano d’amore), e all’opposto pezzi ballabili e pieni di chitarre, come moda comanda (lo stesso “Hard to beat”, uno dei più riusciti dell’album).
I temi, oltre alla politica e all’amore, sono le piccole gioie e le sofferenze del quotidiano: il gruppo sarebbe la colonna sonora ideale del primo Ken Loach. Musicalmente altri paragoni sono possibili: con i Gorillaz, i Bloc Party, gli Streets; con gli Strokes, per il sound che comunque naviga in un’atmosfera garage e per l’uso disinvolto della voce di Richard Archer; con gli Oasis, per i momenti più lirici. Chi li ha visti dal vivo dice meraviglie: del gruppo piacciono soprattutto la spontaneità e la sfrontatezza – purtroppo destinate a perdersi col tempo. Per ora bisogna goderseli così, gli Hard-Fi: un po’ crudi, un po’ poco rifiniti, che in tempi di produzioni ipertrofiche non è necessariamente un male. Su tutto, una perplessità: cosa vogliono fare da grandi questi ragazzi? Restare attaccati al modello-Clash, sebbene rivisitato? Spostarsi ulteriormente verso i più trendy Strokes? Trovare una strada propria, più originale? Quest’ultima ipotesi sarebbe la più auspicabile per trasformare gli Hard-Fi da one-hit wonder o poco più a band capace di dare – sul serio – filo da torcere a Eminem.