C’è voluto del tempo, ma una volta uscito dai blocchi di partenza Waters ha divorato la pista e si è tuffato verso il traguardo con il furore sacro di cui è capace, come ben sanno i fan e i suoi ex compagni di imprese musicali. Sostenuto dalla Sony, non si è fatto mancare niente: orchestra di 82 elementi, direttore – Rick Wentworth - e cantanti di grido (le star sono il baritono gallese Bryn Terfel e la soprano cinese Ying Huang) più tre diverse formazioni corali, utili a confezionare un’opera in tre atti che supera i 110 minuti di durata. Non ci si aspettino promiscuità con il mondo rock, con la musica dei Pink Floyd e con quella del Waters solista. Di chitarre elettriche o batterie, qui, neanche l’ombra, anche se l’approccio del bassista-compositore alla materia lirica è spurio e non rigoroso. Chi sa di classica ha già rilevato un forte debito nei confronti di Puccini e altri, ma è vero che nello sfarzoso affresco complessivo c’è tempo e modo di includere altri linguaggi musicali, marcette militari e musica circense (proprio su una pista da circo si svolge l’azione scenica), sapori di musical e di spiritual caraibico: e “Silver, Sugar, Indigo” che apre la Scena 3 del Secondo Atto ricordando i moti insurrezionisti nelle Colonie francesi è uno dei momenti più godibili e inattesi del programma.
La firma di Waters si legge a fatica in controluce, le sue impronte digitali bisogna andarsele a cercare col microscopio: le voci bianche, naturalmente, che rievocano quasi per riflesso condizionato quelle di “Another brick in the wall”; l’uso dei rumori ambientali e naturali – vento, pioggia, temporale, cinguettio di uccelli, cavalli che nitriscono, ticchettio di orologi, crepitio di fucili e colpi di cannone – che i Floyd frequentavano amorevolmente già ai tempi di “Ummagumma” e del breakfast psichedelico di Alan; soprattutto i temi ricorrenti nel libretto, quelli sì in perfetta sintonia col mondo poetico e le celebri ossessioni watersiane: la follia del potere, la manipolazione delle masse, il rigido ordine sociale pronto a saltare in aria come una pentola a pressione troppo a lungo tenuta sul fuoco (o come il muro di “The wall”), lo slancio utopico macchiato dal senso di tragica ineluttabilità degli eventi. Lo stesso autore ha ammesso, in recenti interviste, i numerosi riferimenti alla situazione mondiale contemporanea, nella drammatica dialettica tra i ricchi privilegiati e massa povera dell’umanità destinata auspicabilmente a sfociare in un cambiamento per il meglio. Ma è come se Waters, per la prima volta in vita sua, non abbia osato imporre la sua visione delle cose, finendo soggiogato dal peso ingombrante della materia e della tradizione musicale con cui ha deciso di confrontarsi. Troppa enfasi (persino nelle note autografe di copertina ), troppa rigidità formalistica, poco slancio creativo. “There is hope”, “c’è speranza”, sottotitola l’ex Floyd evocando i moti idealistici e l’ottimismo della fase iniziale della Rivoluzione, prima del regno del Terrore e della ghigliottina. Ma qui, al contrario, di luce, aria, vitalità, ce n’è poca. Waters si conferma uomo da “Dark side”, molto più a suo agio nel suo angolo di luna.
(Alfredo Marziano)