Julian Cope - CITIZEN CAIN’D - la recensione

Recensione del 30 mar 2005

L’Arcidruido è tornato. Entrassero in conto gli attestati di stima, le recensioni entusiaste e il numero di pagine che la carta stampata ha dedicato alla sua ricomparsa sul pianeta rock questo suo ultimo disco sarebbe già in testa alle classifiche. Non sarà così, e d’altra parte in ogni genere di competizione mr. Cope verrebbe immediatamente squalificato per ampio e dichiarato ricorso a sostanze dopanti. Spostiamo il discorso su un altro piano, allora: Saint Julian è uno dei pochi, nel suo ambiente, a mettersi ancora in gioco con senso del rischio e spericolatezza, per il puro piacere della scoperta. Dopo le erudite, celebrate escursioni nel mondo accademico, nei miti nordici e dell’architettura preistorica (il suo secondo volume sul tema, “The megalithic European”, è uscito di recente), dopo le esoteriche esplorazioni in territori ambient, metal e garage condotte sotto diverse sembianze (Queen Elizabeth, L.A.M.F., Brain Donor), è tornato a far musica per le “masse”. Fino ad un certo punto: come ha giustamente sottolineato il mensile “Uncut”, “Citizen Cain’d” è il disco che mai e poi mai avrebbe potuto realizzare alla corte di una multinazionale (e un plauso sincero va alla casa editrice Lain, che se n’è assicurata i diritti di pubblicazione in Italia insieme a quelli della duplice biografia “Head on”/“Repossessed”): urticante, visionario, catacombale, poetico, profetico, blasfemo, pindarico, iconoclasta… Nell’affrontare quasi ossessivamente i temi della religione, della morte e dell’aldilà, l’uomo di Liverpool ha caricato non poco il fardello ideologico del disco, e ne è cosciente lui stesso se ha deciso di spezzare la sequenza delle dodici nuove canzoni in due cd di breve durata (il primo più duro ed elettrico, il secondo più melodico e acustico) ritenendo che un ascolto prolungato possa provocare “esaurimento psicologico”. Stomaci blanditi dalle morbidezze del rock mainstream faranno fatica a digerire le distorsioni selvagge di “I can’t hardly stand it”, una molotov in musica che ricorda i furori degli Mc5, e quei suoni a volte lugubri, a volte quasi accecanti di luce che lo sciamano Julian sembra davvero aver concepito sulla soglia tra questo e un altro mondo ultraterreno. Se si entra in sintonia, il viaggio diventa affascinante. Cope, erede di Barrett, di Roy Harper e di altri grandi eccentrici del rock, sciorina lucidi pamphlet sociopolitici (“World war pigs”) e invettive da speaker’s corner, satura l’aria di clamorosi riff elettrici alla Iggy Pop (“Hell is wicked”) e sepolcrali talking blues loureediani (“The living dead” ha per bersaglio consueto l’effetto anestetizzante della televisione), sparge manciate di ironia surreale (“I’m living in the room they found Saddam in”, ballata per chitarre acustiche e organo simil-Farfisa) e messaggi esoterici ( “Dying to meet you”, l’imponente “Edge of death”, il blues alla Nick Cave di “I will be absorbed”). Con un quintetto di accompagnatori (c’è anche il vecchio scudiero Donald Ross Skinner, con lui dalle prime avventure post Teardrop Explodes) fabbrica intrugli sonori che riciclano abilmente il suo patrimonio musicale: garage punk (“Gimme head” sembra un pezzo dei Troggs) e space rock (la steel e la melodia pinkfloydiana di “Homeless strangers”), il folk psichedelico e stralunato di “Fried” (irresistibili gli undici minuti di “Feels like a crying shame”, un flusso di coscienza che rievoca Jim Morrison e altri illustri fantasmi pop su un fitto interplay di chitarre) e il pop acido di “World shut your mouth” (la filastrocca spensierata di “Stomping Dyonisus”), gli strali antidottrinari di “Jehovahkill” e le preoccupazioni ecologiche di “Peggy Suicide”. Solo che qui tutto è più estremo, ruspante, senza compromessi. Se non è il suo album più ispirato e conciso, forse, sicuramente “Citizen Cain’d” suona come il disco più sincero di Julian Cope. Vent’anni fa, ai tempi di “Fried”, fece scalpore quella copertina che lo ritraeva senza abiti sotto un guscio di testuggine gigante. Qui è sparito anche quello, e il Re dell’acid rock del 2000 è nudo per davvero.

(Alfredo Marziano)

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