Cristina Donà - CRISTINA DONA' - la recensione

Recensione del 28 set 2004 a cura di Giulio Nannini

E chi l’ha detto che la musica italiana non si può esportare? Ci prova Cristina Donà con il suo nuovo eponimo album e l’incoraggiamento di Davey Ray Moor dei Cousteau, collaborazione ormai collaudata. L’album in inglese di Cristina è in realtà la riproposta dell'ultimo “Dove sei tu”, da cui sono ripresi buona parte dei brani, con l’aggiunta di una versione acustica di “How deep is your love” dei Bee Gees (che restituisce freschezza e valore alla melodia originale, troppo patinata nell’esecuzione dei fratelli Gibb) e di “Goccia”, lasciata in italiano (così come era stata accettata dall’airplay della BBC One) e anche perché chiedere a Robert Wyatt di reinciderla in inglese sarebbe stato un gesto di avidità. Questo per quanto riguarda l’edizione italiana dell’album, perché quella destinata al resto del mondo (eh già, il disco sarà pubblicato in 32 paesi, dall’India fino alla Nuova Zelanda) conterrà anche le versioni in italiano di “Il mondo” e “L’uomo che non parla”, sempre da “Dove sei tu”.

Ma veniamo ai contenuti del disco. Innanzitutto bisogna dire che si tratta di versioni non stravolte, anzi, l’originale è riproposto con fedeltà (tranne qua e là qualche sovraincisione o effetto della voce in più). Il passaggio dall’italiano all’inglese conserva la stessa metrica, in modo che le linee melodiche non vengano intaccate. E anche il significato letterario rimane spesso identico (con qualche piccola evoluzione, ad esempio “Nel mio giardino” diventa “Yesterday’s film”). I momenti migliori sono l’apertura di “Ultramarine” (“In fondo al mare”), “Milly’s song” (dedicata alla figlia di Moor), che in inglese sembra davvero uscire da un musical, e - decisamente più incisive che in italiano, data la loro natura rock – “The Truman Show” e “Triathlon” (nella versione remix di Samuel dei Subsonica). “Give it back” era già in inglese in “Dove sei tu”. E anche se in “Invisible girl” Cristina canta “he don’t see you” (conosciamo i pregiudizi che godono gli italiani all’estero e forse uno scolastico “he doesn’t” poteva anche starci), il suo inglese è meno improvvisato e più colto di quello di Elisa. Ma alcune canzoni perdono un po’ di quel fascino che la nostra lingua possiede, spersonalizzate di fronte al servilismo linguistico, come in “Wherever find you” e “One perfect day”.

I fan della prima ora avrebbero forse gradito che la Donà pescasse anche dai primi due album le canzoni da “tradurre”? Si poteva aspettare un nuovo repertorio composto ad hoc invece di mettere mano su materiale già pubblicato? In ogni caso, l’album dimostra come la scelta dell’inglese sia una necessità per rendersi più fruibile agli occhi del mercato internazionale, piuttosto che un ambizioso capriccio artistico.

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