Se la si paragona a quel che offre il panorama soul dance/nu r&b contemporaneo, insomma, la Morris può starsene comodamente seduta una spanna sopra tante più giovani, avvenenti e accreditate colleghe. Peccato che non abbia voluto insistere nel minimalismo in bianco e nero e nell’esplorazione della vena autorale, elegante ed essenziale, del disco precedente. Ma tant’è: “Love and pain” resta un disco molto più stuzzicante del superprodotto “Fallen angel”, per dire, e che vale comunque la pena di ascoltare. Soprattutto per le ballate: una, ispirata al gruppo canadese dei Cowboy Junkies (da cui prende il titolo), ne replica in toni più morbidi e pop il sapore agrodolce e autunnale delle melodie; e colpisce nel segno anche “Innocence”, belle chitarre acustiche (suonate da MacColl), tin whistle irlandese e gli archi del Quartetto (tutto femminile) Barueco, abituato a spaziare dal barocco ad Astor Piazzola ed incisiva presenza italiana in un disco a cui ha lavorato a Firenze anche l’ingegnere del suono Lorenzo “Moka” Tommasini. Timbro vocale androgino , all’occorrenza ammiccante e sboccata secondo gli insegnamenti di tante maestre del genere (da Etta James a Millie Jackson), Sarah-Jane sguazza a pieno agio tra le pieghe sensuali e autobiografiche di “Mad woman blues” (il libero fraseggio del testo le dà occasione di piazzare una gran performance vocale) e di “It’s Jesus I Love” (dove confessa di sentirsi una “dirty woman”: “E’ Gesù che amo, ma stasera ho bisogno del diavolo!”). Una donna blues, la Morris, a dispetto delle lentiggini e della fulva chioma. Che esprime una naturale empatia con l’arte sofferta di Janis Joplin (avrebbe anche dovuto interpretarne il ruolo in uno dei film di prossima uscita che hanno per soggetto la vita travagliata della texana): “La vita non è facile, Janis, né per te né per me”, canta citando la celeberrima “Summertime” in fondo a una ballata rock elettroacustica che parla, con gusto inequivocabilmente inglese, di cavalli e scommesse (“A horse named Janis Joplin”) approfittandone per celebrare la soul woman bianca di Woodstock e Monterey .
Discreti e sottotraccia nei titoli citati, i ritmi danzerecci e i loop elettronici salgono in superficie nei tempi veloci che occupano l’altra metà del disco. E se su “Love and pain” aleggia un’atmosfera minacciosa e arcana grazie al didgeridoo suonato dal marito David Coulter e alle distorsioni di una chitarra elettrica, “I get high” sforna invece una coda fiatistica pilotata dal trombone di Annie Whitehead, veterana di mille dischi British jazz. “Nothing comes from nothing”, il ritornello più immediato, parte come una dance balearica per poi ricordare da dove nasce Lisa Stansfield, e un analogo sapore anni ’80 (periodo Communards o giù di lì) arriva con “Arms of an angel”.
“Love and pain” è un album di voce, come sempre: che la Morrris sa pescare nei più reconditi anfratti delle corde vocali e dell’anima, celebrando “l’essere donna attraverso le canzoni”, come spiega nelle note di copertina. Magari a volte si lascia scappare qualche birignao di troppo: per esempio in “Blind old friends”, ballata lounge di vago sapore brasiliano il cui “demo” era stato incluso nel succitato “August”. Proprio il disco che aveva dimostrato cosa può fare la signora Morris con il suo splendido strumento naturale, se non gli si cuce troppa stoffa musicale intorno.
(Alfredo Marziano)