L’ascolto del loro atteso album di “debutto” è di quelli che sembrano fatti apposta per eccitare la fantasia dei recensori e innescare un gioco infinito, alla lunga persino lezioso, di paragoni, rimandi e citazioni. Non ci sottraiamo al compito neanche noi, per dirvi che nelle dodici tracce del disco (un paio sono niente di più che brevi intermezzi strumentali, l’ultima è seguita da una “ghost track” di quasi quindici minuti) ci è parso di sentir risuonare arcani frammenti di “Nursery Cryme” e di “Physical graffiti”, di “Tommy” e di “The dark side of the moon”. Questo ed altro si nasconde tra le pieghe di un disco ambizioso assai: melodiche ed energiche ballate elettriche precedute da quiete introduzioni strumentali, che creano con calma il “set” e l’ambientazione richiesta prima di far entrare in scena i personaggi ed esporre la trama; cascate chitarristiche alla Rush ed echi del più celebre rock concittadino; neo-psichedelia elettronica alla Radiohead e un romanticismo epico che ci ha ricordato i Waterboys dei bei tempi andati. “Big music” anche questa, come quella sognata ai tempi da Mike Scott: panoramica, grandiosa, spazzata da venti tempeste ed elementi naturali (di qui le canzoni intitolate ad oceani, montagne, cieli e stagioni). Un rock “pittorico” e da grandi spazi, insomma, con tutti i pregi e i difetti del caso: lirico, denso, intenso, ma anche – a tratti – enfatico, roboante, autoreferenziale. Enigk mette in gioco un falsetto di spiccate qualità teatrali e sicuro effetto melodrammatico: non è ai livelli impareggiabili di un Jeff Buckley, naturalmente, ma vale sicuramente un James Walsh (Starsailor) o altre celebrate ugole di questi ultimi anni. E poi c’è il citazionismo spinto, e magari anche involontario, della musica: chitarre pinkfloydiane nell’iniziale “Uncle mountain”; riff monumentali alla Jimmy Page nel preludio a “It’s over”; scampoli di rock opera in “Oceans apart” e i giovani Genesis di Gabriel in “Houses”. Fino al post-grunge di “Chain” e del bel pezzo conclusivo, enigmaticamente intitolato “Sinatra”.
Il “suono”, si sarà capito, gioca un ruolo fondamentale e il produttore, Brad Wood, è uno che sa giocare bene con gli spazi e con i volumi. Soprattutto è un esperto di rock duro e di chitarre (Smashing Pumpkins, Liz Phair): e per questo, qui, le sei corde elettriche suonano compatte come granito e scintillanti come acciaio. Gruppo e casa discografica gli hanno dato probabilmente carta bianca, e lui non lesina effetti e colori strumentali di contorno – c’è un’orchestra con archi e corni francesi, flauti e tromboni; e persino un coro di bambini; e poi chitarre registrate al contrario, e gorgoglii elettronici – per movimentare un disco a tinte forti, dai numerosi contrasti cromatici e sobbalzi emotivi. Anche troppo, forse: i Fire Theft suonano, a tratti, come una vera forza della natura, ma altre volte impeto e ambizione gli annebbiano un po’ la vista. Meno sfarzo produttivo avrebbe magari giovato ad Enigk: che assomiglia a uno di quegli attori di talento un po’ troppo propensi a strafare, quando non c’è un regista di polso che li metta in riga.
(Alfredo Marziano)