Undici cover, che alla canzone popolare angloamericana guardano da angolazioni temporali diverse: ballad secolari in quantità, riarrangiate per strumentazione rock, ma anche “finti” traditional scritti in epoca moderna secondo i dettami dei tempi che furono. Qui si parla di lavoro, sfruttamento, lotte sindacali, emigrazione forzata, guerre, streghe, magia, omicidi, amori contrastati dal ceto e dal censo: di quella sostanza umana e storico-sociale, insomma, di cui si è sempre nutrita la popular music, il sentire collettivo e l’immaginazione delle classi lavoratrici. Oggi, nel nostro mondo che ha perso la memoria, Natalie è una di quelle che ancora portano la torcia, che ancora tengono accesa la fiamma del ricordo. Le canzoni che ha scelto raccontano di uomini e di donne, di passioni intime e di drammi collettivi, e per questo sono così vive. Gli amanti del rock ne riconosceranno diverse: la desolata “Poor wayfaring stranger”, per esempio, che stava nel “Solitary man” di Johnny Cash, terzo capitolo delle sue testamentarie “American recordings”; o “Which side are you on?”, la stessa canzone di protesta che Billy Bragg incise nel 1985 per sostenere lo sciopero dei minatori inglesi contro il governo di Margareth Thatcher. E “Crazy man Michael” (firmata Thompson-Swarbrick) è una di quelle ballate rock elettriche in spurio ed eccitante stile tradizionale che al succitato “Liege and lief” valsero la palma di pietra miliare del folk rock inglese. C’è un omaggio alla leggendaria Carter Family, campionessa della old time music dei Monti Appalachi (“Bury me under the weeping willow”, un bluegrass galoppante) e c’è un reperto dagli storici archivi della “Anthology of American folk music” di Harry Smith (“Down on Penny’s farm”), c’è un inno sacro sepolto nella memoria collettiva (“Weeping pilgrim”) e una filastrocca infantile da salto della corda che qui diventa un rock blues teso e nervoso (“Soldier, soldier”). C’è una sinistra murder ballad, “Diver boy”, che la chitarra di Erik Della Penna tinge di adeguato giallo-thrilling (a me ricorda molto certi arrangiamenti dei dimenticati Fotheringay di Sandy Denny) e c’è una ballata lenta e maestosa, “Owensboro”, che meglio di un film o di uno sceneggiato Tv racconta tribolazioni e umiliazioni di un’umanità strappata alle campagne e rinchiusa tra le mura spietate di una fabbrica (non sembra molto diversa, la rivoluzione industriale della Cina di oggi…). Tutto è bello, intenso, commovente, vitale, in questo disco: grazie anche alla voce tremula e partecipante della Merchant, alla dedizione e alla discrezione dei suoi accompagnatori (al basso elettrico c’è l’insospettabile Graham Maby della Joe Jackson Band, e accanto a chitarre e tastiere ci sono banjo, violini e fisarmoniche).
Ah, già. Gli addetti ai lavori smaliziati che la sanno lunga e che decretano cosa è “in” e cosa è “out” la liquideranno come un’operazione di piccolo cabotaggio, fatta da un’artista che ha già speso i suoi quindici minuti di celebrità. Può darsi. Intanto Natalie ha venduto settantamila copie dell’album (dati vecchi di un mese, ormai), recuperando abbondantemente i costi di produzione. Con piena soddisfazione: sua e nostra.
(Alfredo Marziano)