White Stripes - ELEPHANT - la recensione
Recensione del
07 apr 2003
"Quel disco è molto minaccioso nella maniera meno minacciosa possibile".
Così il batterista Victor De Lorenzo ricorda il primo album del suo gruppo,
i mai troppo osannati Violent Femmes. La stessa definizione si potrebbe
estendere a "Elephant" e ai suoi creatori, i White Stripes. Jack e Meg White
sono ormai uno degli argomenti preferiti della stampa specializzata ma
restano una presenza felicemente eccentrica nel mondo dei gruppi rock da
copertina. Il loro metodo operativo segue infatti regole opposte a quelle
del manuale della perfetta band di successo: formazione ridotta all'osso
(chitarrista-cantante e batterista, tutto lì), secco rifiuto della
tecnologia digitale, ammirazione dichiarata per i vecchi eroi del blues (la
generazione di Robert Johnson più che quella di B.B. King), suoni rustici da
garage. La "minaccia" dei White Stripes consiste nella loro capacità di
attirare attenzione e pubblico ribaltando gran parte degli usi correnti nel
pop con la loro semplice esistenza. Per giunta, i due non mandano
rumorosamente affanculo nessuno, come esigerebbe il copione del ribelle
iconoclasta. Anzi, parlano di innocenza perduta e lamentano la scomparsa
della sensibilità, soffocata dal bullismo di successo. Musicalmente,
"Elephant" segue la stessa trama dei lavori che lo hanno preceduto.
Annunciato come un album malinconico, si è trasformato invece in un lavoro
più aggressivo rispetto alle intenzioni iniziali. Non ci sono concessioni a
una maggiore pulizia formale: la chitarra di Jack White difficilmente verrà
citata ad esempio dai maestri di musica e Meg White picchia sulla batteria
con una tecnica elementare. A fare la differenza con migliaia di altri
gruppi simili è la capacità di Jack di scrivere una buona canzone con un
semplice riff o una manciata di accordi elementari. "Elephant" è pieno di
esempi del genere: il quattro quarti quasi tribale dell'iniziale "Seven
nation army" (il primo singolo), il quasi-gospel "There's no home for you
here", il siparietto minimale di "Cold cold night" (cantato da Meg e
descritto da Jack come un incrocio fra Peggy Lee e Mazzy Star), lo stringato
garage-punk di "Hypnotize". Non tutto è perfetto e la passione per la
tradizione può anche giocare qualche scherzo, come accade nella lunga "Ball
and biscuit", il momento in cui i White Stripes più si avvicinano ai
manierismi di un gruppo da pub impegnato a martirizzare il blues. Qualche
episodio ("Black math" e "Girl, you have no faith in medicine") mostra più
di altri un'inevitabile aria di già sentito, ma viene riscattato dalla foga
con cui i due ci si avventano. Si tratta comunque di peccati veniali,
trascurabili in confronto ai momenti migliori. A questi aggiungiamo pure la
cover di "I just don't know what to do with myself" (Bacharach come lo
avrebbero rifatto i Sonics, più o meno) e "It's true that we love one
another", buffo triangolo country fra Jack, Meg e Holly Golightly.
Prima di venire travolti dalle probabili esagerazioni della stampa inglese,
provate ad ascoltare "Elephant". Forse non sarà il futuro della musica ma è
un presente che profuma di passione per il rock più che di strategie di
marketing.
(Paolo Giovanazzi)
Tracklist
01. Seven nation army
02. Black math
03. There's no home for you here
04. I just don't know what to do with myself
05. Cold cold night
06. I want to be the boy
07. You've got it in your pocket
08. Ball and biscuit
09. The hardest button to button
10. Little acorns
11. Hypnotize
12. The air near my fingers
13. Girl, you have no faith in medicine
14. It's true that we love one another