Tanto per cominciare, dal punto di vista dei suoni questo disco è un lavoro brillante. Ogni nota, ogni sfumatura della voce è chiara e cristallina, ogni strumento ben suonato, e già questo è importante. Ma più importante ancora è l’idea che sta dietro l’album, quella di Scarlet appunto, di una donna arrabbiata col mondo che fa pace con se stessa e con gli altri solo alla fine del disco (e cioè, quando nasce suo figlio). Progetto presuntuoso? Addirittura superbo? Certamente. Ma se così non fosse, “Scarlet’s walk” non avrebbe ragion d’essere. Che senso ha infatti lottare e costruire castelli, o almeno provarci, se gli obiettivi non sono alti?
Dal punto di vista musicale, l’album traccia un sentiero sonoro che seguire è perlomeno piacevole. Certo qui ci sono anche canzoni che a un primo ascolto non dicono un granché, come “Your cloud”, “Pancake” o “Mr. Jesus”, ma che sentite più volte guadagnano terreno e trovano il loro posticino nel disco. Il singolo di lancio dell’album, “A sorta fairytale”, è una buona scelta sia per il titolo (suggestivo) che per l’atmosfera sonora (avvolgente). La canzone successiva, “Wedsneday”, parte con un ritmo irresistibile e ritrova definitivamente la personalità che la Amos sembrava aver smarrito. “I can’t see New York” è uno di quei bei pezzi epici (sette minuti) che ti fanno esclamare: “Ah! Questa sì è una canzone”, e che (come anche “Gold dust”, come più in generale tutto l’album) riportano alla mente Mitchelliane memorie. Se le escursioni vocali, l’uso del piano e la struttura ritmica della Amos non vi hanno annoiato in passato, adorerete quest’album. Se amate le rare creature capaci di mettere tutte se stesse in una storia, vi getterete ai piedi di questa donna-ragazza con i capelli rossi, che non urla mai troppo anche se potrebbe farlo, che nei suoi dischi parla di politica senza esagerare, che soffre per amore come chiunque altro al mondo – e lo racconta come pochi sanno fare.
(Paola Maraone)