“Forty licks” è una raccolta di successi, e non può scandagliare tutto l'oceano: ma la pesca resta abbondante, e tira fuori dalla sabbia anche qualche gioiellino meno esposto. Fa piacere, per esempio, rinfrescarsi la memoria sugli Stones bluesmaniaci delle origini: il Buddy Holly anfetaminizzato di “Not fade away” e il beat-soul sincopato di “It’s all over now” (Bobby Womack), due cover incise quasi quarant’anni fa; oppure il garage sferragliante di “The last time” e di “19th nervous breakdown”, smaltate a nuovo dalla scintillante rimasterizzazione digitale. A proposito: bisogna riconoscere che mai prima d’ora si erano ascoltati gli intrecci chitarristici di “Street fighting man” e i violoncelli di “Ruby Tuesday” con un dettaglio e una chiarezza simili: tanto da scoprire, qua e là, minuzie fino ad oggi sfuggite a puntine e raggi laser.
Il primo CD, che spazia dagli esordi al 1971 di “Sticky fingers”, è naturalmente il più succoso (e il meno servito da raccolte recenti). Molti dei titoli che contiene, è quasi superfluo ricordarlo, sono diventati col tempo archetipi musicali e fotogrammi di cronaca sociale del XX secolo. “(I can’t get no) Satisfaction” resta il prototipo sonoro dell’irrequietezza e della frustrazione giovanile. “Sympathy for the devil” e “Under my thumb” rievocano il lato più maledetto e sinistro della band (al festival di Altamont, dicembre 1969, fecero da prologo ed epilogo involontario a un omicidio). “You can’t always get what you want”, abbinata alle sequenze iniziali del “Grande freddo” di Kasdan, si è appiccicata indelebilmente all’immaginario di una generazione di baby-boomers. “Street fighting man” ha cavalcato, magari furbescamente ma con perfetta scelta di tempo, le barricate di fine anni ’60. “Jumpin’ Jack Flash” e “Honky tonk women” sono i riff quintessenziali del rock, “Wild horses” la ballata acustica e decadente per eccellenza, “Paint it, black” una delle prime, e più eccitanti, sbirciate del mondo rock sull’Africa e sul mistico Oriente. C’è anche lo skiffle psichedelico di “Mother’s little helper”, e poi il torrido rock&blues di “Gimme shelter”, e i pizzi e merletti colorati di “She’s a rainbow”: il tutto scompaginato nella cronologia, perché i compilatori hanno preferito sacrificare il rigore storico a esigenze di “sequenza” e di impatto sonoro (e il meccanismo funziona, come in un’ideale setlist da concerto).
Il secondo tempo riprende il discorso dal ’71 e dai jeans con lo zip di “Fingers”, passando da quell’inarrivabile romanzo di miserie e nobiltà del rock and roll che fu “Exile on main street” per arrivare ai giorni nostri, tra altre ballatone sentimentali (“Fool to cry”, “Angie”), turbo-rock da stadio (“Start me up”, “You got me rocking”) e momentanee sbornie dance (“Miss you”, “Emotional rescue”). In mezzo si annidano i quattro inediti, a loro volta equamente suddivisi tra “lenti” e uptempo elettrici. “Don’t stop”, il nuovo singolo, batte strade sicure ma si segnala quanto meno per la bella energia e una stoffa musicale genuina, senza additivi, che contraddistingue anche la meno convincente “Stealing my heart”, dove Jagger, Richards e il co-produttore Don Was strizzano l’occhio ad un pop-rock d’attualità. Per la limpida, lineare “Keys to your heart”, Mick sfoggia la sua vocina più viziosa e il suo registro più soul (bello, di nuovo, il suono nitido e presente delle chitarre). Ma la vera chicca è “Losing my touch” dell’impareggiabile e immarcescibile mr. Richards: intimista, riflessivo, quasi waitsiano e commovente sulle onde del delicato pianoforte di Chuck Leavell. Sta giusto in fondo alla raccolta, e dopo tanta gloria chiude in modo delizioso e un po’ malinconico. L’antitesi della magniloquenza da show business e dell’elettricità ad alto voltaggio: da tempo gli Stones, uomini di mondo, hanno imparato a riapprezzare la semplicità, cambiando pelle a seconda delle circostanze.
(Alfredo Marziano)