Los Lobos - GOOD MORNING AZTLAN - la recensione

Recensione del 19 ago 2002

Diciamolo pure: i Los Lobos non sbagliano un disco. Come quelle band degli anni ’60 e ’70 che potevano pubblicare tre album all’anno senza timore di rifilare un “pacco” agli ascoltatori. In fondo, la questione è semplice: dalle voci e dagli strumenti dei “Lupi” (le chitarre, i bassi, i sax, le percussioni: ma anche aggeggi esotici come il quatro, la jarana, il requinto jarocho) il suono sgorga puro e limpido come fosse la cosa più naturale del mondo. E’ questa loro facilità musicale, un tempo virtù comune e oggi rara come una foca monaca, a stupire e a fare la differenza. In studio e sul palco, i quattro chicanos (più il “gringo” aggiunto Steve Berlin) si trovano a memoria, tanto i componenti del team si conoscono e sono affiatati. Dagli avi messicani hanno ereditato estro, passione, senso di identità storica e di appartenenza ad una comunità. Dalla California adottiva (quartiere di East Los Angeles) la familiarità con le durezze della vita di strada e il linguaggio del rock and roll. “Good morning Aztlán”, il loro album appena uscito, non fa eccezione alla regola. Ribadisce semmai una voglia di “back to the roots” che i fan della prima ora saluteranno con favore dopo gli esperimenti di “Colossal head” e “This time”, i due dischi prodotti da Mitchell Froom e “disturbati” dalle interferenze elettroniche, dal lo-fi artigianale e dai pastiche postmoderni cari all’ex marito di Suzanne Vega. Stavolta, dietro alle manopole della console c’è John Leckie (Verve, Radiohead): ma di British sound neanche l’ombra, e quel che affiora è piuttosto un impasto di ingredienti “biologici” che rimanda ai tempi lontani di “By the light of the moon” o di “The neighborhood”. Sono i Lobos più schietti e lineari, insomma, se non per qualche obliquo studio sul ritmo (“Malaqué”) e un’apertura crescente al soul (nella musica e nel testo pacifista, “The word” è un omaggio esplicito a Marvin Gaye e fa il paio con la splendida reinterpretazione live di “What’s going on”).

Per il resto si gioca in casa, e tutto sembra tornare come prima: formazione immutata dalla metà degli anni ’80 e nessun indizio evidente della terribile tragedia che ha colpito il vocalist/chitarrista Cesar Rosas, una moglie trucidata dal fratellastro ad inzaccherare le pagine di cronaca nera nell’autunno del ’99.
La rivendicazione delle radici è evidente fin dal titolo (Aztlán è l’Atlantide della mitologia azteca), e poi nei temi del disco: storie del border e di immigrazione dolente come “Tony y Maria”, Messico e California meridionale separate da un virtuale Muro di Berlino: una classica ballata alla Hidalgo-Perez, che come sempre preferiscono (fortunatamente) buttarla sul privato anziché sul politico. Ogni membro del quintetto ha spazio giusto per brillare: David Hidalgo si conferma eccellente narratore, sfoderando una voce white soul alla Steve Winwood e vibranti assoli latin blues in “Hearts of stone”. Rosas si produce nella sua specialità, menando le danze in cumbie da struscio come “Maria Christina” e lenti ultraromantici da balera come “Luz de mi vida” (cantata in Spanglish, la lingua meticcia che mescola parole inglesi e messicane). Louie Perez lascia lo sgabello da batterista ad illustri colleghi (Pete Thomas, Jerry Marotta, Victor Bisetti, il Cougar Estrada dei Los Superseven e dei Latin Playboys) per strimpellare la chitarra (e tre!) e dedicarsi al songwriting. I fendenti del basso di Conrad Lozano mettono il turbo a “Done gone blue”, uno di quegli sferraglianti boogie-blues elettrici per cui i cinque vanno giustamente famosi, e i sassofoni di Steve Berlin soffiano venti torridi e sensuali un po’ ovunque. Suoi anche i flauti fluttuanti di “Round & round”, il pezzo finale che tiene fede al suo titolo con un’ipnotica, liquida struttura circolare di tono vagamente psichedelico: una conclusione di gran classe e inattesa per un disco luminoso e colorato come la sua copertina. “Good morning Aztlán” non ha la giovane irruenza di “How will the wolf survive?” né la qualità di scrittura e gli arrangiamenti geniali di “Kiko” (ad oggi il loro capolavoro): ma semplificando le cose, i Lobos hanno fatto la scelta giusta per togliersi di dosso ruggini e cattivi pensieri.

(Alfredo Marziano)

Tracklist

01. Done gone blue
02. Hearts of stone
03. Luz de mi vida
04. Good morning Aztlán
05. The big ranch
06. The word
07. Malaqué
08. Tony y Maria
09. Get to this
10. Maria Christina
11. What in the world
12. Round & round

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