Ho conosciuto Patti Smith da un 45 giri. No, non quello “storico” del suo debutto su etichetta indipendente Mer (“Hey Joe”/ “Piss factory”), che pure possiedo, benché nella versione Sire stampata per l’Italia dalla Rca - in copertina campeggia una foto di lei che indossa una T-shirt con la faccia di Keith Richards - , ma un singolo d’importazione Arista (AS 171) accreditato al Patti Smith Group (sul lato A c’è lei con Lenny Kaye, sul retro le foto di Richard Sohl, Ivan Kral e Jay Dee Daugherty). Le due canzoni sono “Gloria” e “My generation”, e una scritta avverte: “Notice - ‘My generation’ contains language that might be considered objectionable”. Più che il nome del gruppo, all’acquisto mi avevano indirizzato la curiosità di ascoltare le cover di due brani ugualmente benché differentemente importanti.
Di quel disco, di “Horses”, l’unico brano che poi cominciai a proporre con una certa frequenza ai pazienti ascoltatori di “Musica Obliqua” era “Redondo beach”: in fondo, l’unico (insieme a “Gloria”) che avesse la forma della canzone e un ritmo “radiofonico”, un sorridente tempo di reggae che sottende il racconto di un suicidio. “Birdland”, quasi dieci minuti di poesia declamata su uno scarno tappeto musicale, era francamente improponibile per radio; già più adatta era “Free money”, che dopo una lunga rincorsa di due minuti si libera in una furibonda cavalcata di chitarra basso e batteria sulla quale Patti Smith delira più che cantare.
“Kimberly”, dedicata alla sorella, sembra una cosa dei Velvet Undeground (eggià, la mano di Cale), con la voce che va per conto suo su una base musicale circolare. “Break it up”, dedicata a Jim Morrison, è quasi un duetto fra la voce della Smith e la chitarra lancinante di Tom Verlaine (sentite come si chiamano e si rispondono). C’è una chitarra “ospite” anche nel breve brano dedicato a Jimi Hendrix che chiude l’album, “Elegie”: è quella di Allen Lanier dei Blue Oyster Cult, ma il pezzo è sostanzialmente sorretto dalla voce della Smith e dal pianoforte di Richard Sohl. Prima di “Elegie”, però, “Horses” offre la sua pièce de résistence: i nove minuti e ventisei secondi di “Land”, suite poetico-musicale in tre movimenti (dal cui testo Julie Burchill ha tratto la frase che intitola il suo fondamentale volume sul punk, “The boy looked at Johnny”). Troppo difficile, per i miei gusti semplici, troppo impegnativa per uno come me che - allora, ma nemmeno adesso - non ha tutta questa familiarità con l’inglese parlato.
Nel complesso, “Horses” non divenne uno dei miei dischi preferiti, né l’interprete entrò nella mia personale (e ristretta) hall of fame. Fino a quando, nella tarda estate del 1979, venne in Italia, prima per una lettura poetica a Venezia, poi per due concerti a Bologna e a Firenze (due eventi epici, da quasi centomila persone complessive). Lavoravo allora per la EMI, che distribuiva l’Arista; diventai così l’accompagnatore personale di Patti Smith, seguendola passo passo in tutti i suoi spostamenti, e imparando a conoscere la fragilità, l’imprevedibilità e la dolcezza di una donna speciale. Alla fine del tour, salutandomi all’aeroporto di Pisa, mi regalò l’agnellino di peluche grigio che s’era portata come mascotte per il viaggio in Italia. “Si chiama Ayatollah, abbine cura!” mi disse. Quando Patti Smith è tornata in Italia, qualche anno fa, gliel’ho riportato (“Vedi, ne ho avuto cura...”) e lei mi ha detto: “Allora puoi continuare a tenerlo”. Adesso è lì che mi guarda, dall’alto di uno scaffale della mia libreria.