Cher - LIVING PROOF - la recensione

Recensione del 26 gen 2002

Una diva senza requie, che ha diluito la sua arte - e se stessa - lungo quarant’anni di una carriera non priva di successi né di delusioni. Oggi che ha 55 anni, ascoltandola, non si può fare a meno di pensare che a Cher sia sempre mancato qualcosa. Come spiegare altrimenti le sue incessanti incursioni dal mondo del pop in quello del cinema, davanti e poi anche dietro la macchina da presa, e viceversa? Come spiegare altrimenti le sue grandi passioni, rivolte verso uomini sbagliati (prima il manesco Sonny Bono; poi l’eroinomane Greg Allman) e figli amati (troppo amati), verso operazioni di chirurgia plastica prima ammesse e poi negate, di strumenti sofisticati per evidenziare (prima), mascherare (poi) la voce?

A proposito di vocoder. L’utilizzo spietato del mezzo, che nel fortunatissimo “Believe” (1999) ha aiutato Cher a raggiungere vette insperate, in “Livin’ proof” risulta francamente pesante. E per fortuna che - assicura lei - l’aggeggio galeotto non è servito a “nascondersi”, ma a “cambiare un po’”. Nel disperato tentativo di non annoiarsi, e di non annoiare. Del resto la star dai mille volti ha sempre vissuto all’insegna di quest’unico imperativo: essere diversa. Stupire. Il più possibile, anche a costo di scendere a patti con se stessa, a costo di finire incastrata, ironia della sorte, nello stereotipo di eterna bambolina (ora esiste persino la Barbie-Cher).
Brillante tentativo, non sempre riuscito. Certamente non ora: non in “Living proof”, in apparenza null’altro che la brutta copia di “Believe”, che poteva contare almeno su un effetto sorpresa. Il CD che abbiamo ora tra le mani - dodici brani in tutto - è una raccolta di musica dance indolore e incolore, che ricorda più i primi vagiti di una starlette dell’house che il coronamento della carriera di una cantante del calibro di Cher. Un disco rassicurante, in cui a dispetto delle operazioni promozionali non esiste un vero singolo, in cui anche a un orecchio allenato i cosiddetti “brani di punta” sfuggono. Qualche accenno spagnoleggiante, come già in “Dov’è l’amore” (da “Believe”), si coglie per esempio in “Love so high” o in “Body to body, heart to heart”: evidentemente Cher è convinta che “latino” equivalga a “calore”, e lei sola sa quanto sia importante, il calore, in tempi come i più recenti.

Per il resto “Living proof” scorre via liscio, tra house, disco music ed elettronica in buon equilibrio. Buona la produzione, standard gli arrangiamenti, e su tutto, imperante, il tono “teatrale” della star, che canta come stesse recitando - potenza dell’abitudine. Ballad assenti: il ritmo è da sempre la forza di Cher, che probabilmente se si fermasse un attimo non troverebbe più la forza di ripartire. Tanto di cappello a quelle come lei: provateci voi ad arrivare alla sua età continuando a reinventarvi il look, a difendere l’immagine vostra e della famiglia, a proteggere quelle briciole di privato che ancora vi rimangono, sopportando critiche che piovono a destra e a manca, dimostrando tutto sommato di continuare a credere in quello che fate. Provateci voi a fare il camaleonte come Madonna, senza essere Madonna. Sappiamo che Cher ha in mente, nel prossimo futuro, due progetti cinematografici, e le auguriamo che la recitazione le dia più soddisfazioni di questo disco. Del resto lei l’ha ammesso: “Alla dance preferisco il rock, che ci crediate o no”. E’ che il rock non glielo lasciano fare, o non ha avuto coraggio di provarci sul serio, e allora viene fuori con dischi come questo: roba da easy listening. Un filo troppo easy.


(Paola Maraone)

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