Ecco spiegato in poche parole il meccanismo con cui Gak Sato ha costruito i brani contenuti nel suo secondo album intitolato, appunto, “Tangram”. Un disco ipnotico, denso che conferisce la netta sensazione che l’autore stia giocando con l’ascoltatore portandolo in diversi ambienti sonori spostando sempre e soltanto le solite sette pedine.
Il musicista giapponese propone sessanta minuti di musica elettronica molto vicina al jazz, a cui aggiunge campionamenti elettronici, sonorità latine e, parti strumentali registrate in studio. “Style” apre il disco con uno “spoken word” che vede Steve Piccolo (Lounge Lizards) interpretare una poesia di Charles Bukowski (“Style” appunto) sul tappeto sonoro creato da percussioni elettroniche, tastiere e un “pizzicato” di un indefinibile strumento a corde.
Segue la titletrack, un brano jazz trascinato da un basso trascinante e una tromba squillante su percussioni etniche. “Seeing is investing” è una coinvolgente ed eclettica bossa nova, mentre, con “The great beyond” si placano gli animi e ci si cala in una atmosfera dark, gelida. Segue uno dei punti più alti dell’album, “Synapselapse”, dove una batteria vera e propria (ma messa in loop) accompagna un classico del jazz con interventi di turntublism e contrabbasso, in un perfetto e straordinario mix di incontro - scontro di classicità e modernità.
L’ottima “Vexations” (scritta da Steve Piccolo) e due riusciti remix della titletrack chiudono un album coinvolgente, ipnotico e narcotico, a tratti asfissiante per la massa sonora, ma comunque riuscito. Gak Sato, nonostante i mezzi a sua disposizione, riesce ad essere molto vicino all’espressione più classica del jazz senza perdere la sua vena di avanguardia.
(Giuseppe Fabris)