I suoni sono rigorosamente “vintage” (dove la parola perde ogni connotazione modaiola, sottolineando un’aderenza spirituale, prima che estetica ad un certo suono demodé), carichi di evocazioni storiche (le registrazioni hanno avuto luogo presso i leggendari studi B della RCA a Nashville: i preferiti da Elvis Presley, ispiratore nell’occasione di un suggestivo country-blues), spartanamente acustici e basati su due soli ingredienti, voci e strumenti a corda. Potrebbe sembrare una dieta fin troppo povera, per i palati ipervitaminizzati di oggi, ma non è così quando i sapori sono forti, genuini e ricchi di valore nutritivo come in questo caso: la Welch (anche chitarrista ritmica) è titolare di uno spettro vocale in grado di alternare squillanti timbriche in stile autenticamente traditional a toni profondamente intimisti e malinconici, con una gamma di sfumature che ha pochi eguali nel nuovo panorama interpretativo femminile; e il suo compagno musicale e di vita David Rawlings è giustamente considerato uno dei più fini ed inventivi interpreti moderni della sei corde acustica, mai incline al virtuosismo fine a se stesso ma estremamente incisivo nell’arpeggio e nel tocco misurato. Echi, riverberi e risonanze che la coppia cattura in studio evocano magie che sembravano irrimediabilmente perdute. “Dear someone”, ad esempio, potrebbe uscire dagli altoparlanti gracchianti di una vecchia radio sintonizzata su qualche stazione anni ’30 dei monti Appalachi, tra una canzone della Carter Family e una dei Louvin Brothers. E poche cose, sulla scena americana odierna, suonano oggi più rustiche ed arcane di un gospel blues spettrale come “Ruination day part 2”. Ma il pregio maggiore di Welch e Rawlings è che non si tratta di puri e semplici revivalisti: i due possiedono anche un’anima elettrica, come cantano in “I want to sing that rock and roll” (registrata dal vivo), ed è assolutamente moderno il modo in cui la coppia affronta le tematiche del tempo che passa ritornando circolarmente (il “concept” che sottende a tutto il disco) e dei turbamenti amorosi (ci sono i dischi di Steve Miller sullo sfondo della coppia in disfacimento di “My first lover”). “Revelator”, “Everything is free” e “April the 14th part 1” (la faccia più melodica e sentimentale di “Ruination day”) sono ballad spezzacuori e colme di una nostalgia consapevole figlia dei nostri tempi. E non è certo sintomo di conservatorismo musicale il coraggio con cui i due affrontano la conclusiva, ostica “I dream a highway”: una lentissima, lunghissima (quattordici minuti e mezzo!) e ipnotica road song che rammenta i Richard e Linda Thompson di “Pour down like silver” o dei Cowboy Junkies rurali e senza spina. Il cuore profondo dell’America ha trovato nuovi, degni cantori.
(Alfredo Marziano)