E il titolo non c’entra niente con i Beatles che, pure, Elisa confessa di adorare. E’ solo un omaggio alla vita e alle cose belle “che arrivano sempre dopo quelle brutte”, un’iniezione d’ottimismo fatta a un mondo che ne ha più bisogno che mai, un mondo che ha la febbre come canta Elisa in “Fever”, l’unico riferimento ai mali della terra di tutto il disco. Il resto sono storie intime, personalissime, arrangiate in modo semplice eppure incisivo: le canzoni stanno al centro, la voce è in primo piano, i suoni e gli arrangiamenti (complice il “solito” Corrado Rustici) restano un po’ più sullo sfondo: come in “Fairy girl”, che ricorda le fiabe, inizia come una nenia ed è appena accompagnata dagli strumenti, e potrebbe essere un brano per voce sola.
O come in “Simplicity”, il cui titolo è già una dichiarazione d’intenti: qui è una chitarra a stare a fianco della voce. La canzone racconta di un’Elisa-farfalla, che vorrebbe saper volare per sentire da vicino il battito del cuore dell’amante; momenti intensi anche in “Rainbow”, che apre (e chiude, in acustico) il disco: “Posso piangere di fronte a te/ Perché non hai paura della mia debolezza”. Dedicata “a un’amica”, come anche il singolo, “Heaven out of hell”, un pezzo potente in cui la voce di Elisa insegue – da sola – se stessa.
Tirando le somme, è giusto affermare che in questo disco Elisa abbia fatto un’ulteriore passo verso la maturità: al punto che a 23 anni è una delle cantanti più versatili d’Italia, e una delle voci più interessanti al mondo. “Brava, veloce, dotata”, direbbe di lei un’insegnante se Elisa andasse a scuola. Cosa che ha smesso di fare molto presto, convinta com’era che il mondo dei suoni fosse molto più stimolante di quello delle lettere. Continuando, peraltro, a studiare la musica: come dimostra il cammino compiuto da “Pipes&Flowers” a “Then comes the sun” passando attraverso “Asile’s world”. Breve nel tempo, articolato e lungo nello spazio.
(Paola Maraone)