Classici dell’estate: ogni giorno riscopri un disco leggendario, con le recensioni storiche di Rockol.
Diciamocela tutta: riascoltato oggi, questo disco è (quasi) insopportabile. 49 minuti di musica strumentale, a tratti trascinante ma più spesso leziosa e – francamente – pretenziosetta. Eppure “Tubular bells” è stato un disco-fenomeno, non solo per le vendite realizzate all’uscita (1973) e poi nel corso degli anni successivi, nei quali è entrato di diritto nella categoria dei long-seller, ma anche per il ruolo peculiare che ha svolto nell’affermazione di un’etichetta storica come la Virgin.
Con quella registrazione sottobraccio Branson fece il giro della case discografiche per convincere qualcuno a pubblicarla: frustrato dai rifiuti, decise allora di fondare una propria etichetta appositamente per poter editare l’album, nelle cui potenzialità credeva fermamente. Nacque così la Virgin, etichetta discografica per certi versi epocale (forse considerabile la prima “indipendent label” della storia): e “Tubular bells” uscì nel 1973 inaugurando di fatto, col numero di serie V2001, il catalogo Virgin.
Come si diceva, “Tubular bells” ha poco a che vedere col rock, molto più invece con la musica d’ambiente (per essere generosi) o con la muzak d’ascensore e da supermarket (volendo essere severi). Ma i 16 milioni di copie vendute dall’album fanno capire che quel disco toccò un nervo scoperto, o più semplicemente soddisfece una fino ad allora insoddisfatta richiesta del mercato. Oggi suona ingenuamente ampollosa: ma quella composizione che mescolava folk e minimalismo alla Philip Glass esercitò un notevole fascino sul pubblico dell’epoca. Ne esercitò anche sul regista William Friedkin, che decise di utilizzarne alcune parti per la colonna sonora del suo film “L’esorcista”; film che a sua volta, con l’inatteso e fenomenale successo riscosso, contribuì ad amplificare le vendite dell’album.
Mentre scrivo riascolto “Tubular bells”, e il mio parere di 28 anni fa si riconferma: la serena bellezza della parte 1, una suite “a crescere” che si conclude con la divertente “presentazione degli strumenti” – un po’ in stile “Pierino e il Lupo” – affidata alla voce di quel genio bizzarro che fu Vivian Stanshall (fondatore della Bonzo Dog Doo Dah Band, “giullare di corte della scena underground inglese”: avete mai ascoltato il suo “Men opening umbrellas ahead”?) è antitetica alla ben più intricata e assai meno gradevole parte 2 (della quale adesso salverei solo i minuti finali, quelli di una brillante giga esplicitamente irish), che fra l’altro costò a Branson parecchi mesi di studio di registrazione.
Ma l’intera opera, che vinse il Grammy come miglior composizione strumentale nel 1974, non è nel suo complesso considerabile un capolavoro. Probabilmente Oldfield oggi la detesta, anche perché di fatto il suo nome è indissolubilmente legato – nonostante la sua carriera musicista stia continuando – a “Tubular bells”, come quello di un qualsiasi one-hit-wonder. Lui ci ha messo del suo, perché negli anni ha pubblicato anche un “Tubular bells 2” e un “Tubular bells 3”, senza mai rieguagliare il successo dell’esordio; in ogni modo, l’album resta determinante per la comprensione del gusto dell’epoca, ed è una presenza quasi obbligata in una collezione di dischi “ragionata”.