Solo che qui le cose non si sistemano mai. Questo album a tratti ricorda il country, a tratti (spesso) l'ingegno bizzarro di Bjork, altre volte il vecchio Beck, in qualche caso perfino un Tom Waits stanco e arruffato, ogni tanto sembra roba presa da un musical, ogni tanto persino la colonna sonora di un film. Tutto questo dura pochi istanti: il tempo di abituarsi a una strofa, a un'atmosfera che si cambia, pronti! Altro giro, altro regalo. Il tutto è tenuto assieme dalla vocetta intonata ma per niente profonda di Solex, che si è divertita a mescolare “la musica più kitsch che arrivasse in negozio” per inventare un album che allo stesso tempo assomigliasse a tutto e niente. Giocando coi titoli e le parole, oltre che con la musica, facendo il verso persino a Gershwin in “you say potato”: impegnandosi per creare una musica che non possa essere canticchiata da nessuno, che non sia “radio-friendly”, neanche un po'.
Il lavoro di un pazzo, potrebbe dire qualcuno: ma da un altro punto di vista questa è un'opera geniale. A noi ascoltandola viene in mente un alchimista stufo di far sempre le stesse cose, che nel suo laboratorio sperimenta e crea pasticciando tra un alambicco e l'altro; e alla fine gli vengono fuori pozioni ultra moderne, che nessuno conosce, a volte non buonissime ma sempre nuove, questo sì. Se avete voglia di farvi spiazzare un po', di mettervi alla prova e di cambiare radicalmente i vostri parametri, provate questo disco. E se vi piace prendete anche i precedenti: sono un buon inizio sulla strada della rivoluzione.
(Paola Maraone)