I due estremi sonori del disco sono “Yellow Submarine” e “Tomorrow never knows”: la prima, sotto l’apparenza di una filastrocca per bambini, nasconde la complessa semplicità di un arredo sonoro elaboratissimo, allestito da George Martin con tutta la sua esperienza di realizzatore di “comedy records”; la seconda, introducendo l’utilizzo dei tape-loops, “è una produzione che, in termini di innovazioni nella costruzione, sta alla musica pop come la ‘Sinfonia Fantastica’ di Berlioz sta alla musica orchestrale dell’Ottocento” (Ian McDonald, “The Beatles – L’opera completa, Mondadori), e in essa la voce cantante di Lennon è quanto di più simile a un viaggio lisergico si fosse sentito fino ad allora.
Delle altre dodici canzoni dell’album, alcune non offrono sorprese eclatanti. “Got to get you into my life” è un pastiche in stile Holland-Dozier-Holland; “Doctor Robert” resta indubitabilmente un episodio minore; “And your bird can sing” merita attenzione soprattutto per la complessità delle parti di chitarra; “Taxman”, di George Harrison, ha nel testo “politico-sociale” il suo maggiore spunto d’interesse; “”Here there and everywhere” – benché McCartney la consideri la preferita fra tutte le sue composizioni – è essenzialmente una melodia romanticissima elaborata con maestria ma non esente da sentimentalismi; “Good day sunshine”, solare e allegra, ha nella controllata spontaneità il suo pregio maggiore; “I want to tell you” incuriosisce più che altro per come il testo di Harrison, che ne è l’autore, esplora in termini orientali i problemi di comunicazione personale).
Ma “For no one” è formalmente elegantissima, e attonita nel suo contemplare quasi con imperturbabilità la fine di una storia d’amore; “I’m only sleeping” è ingegnosa nella struttura e stupisce con la parte di chitarra a ritroso; “She said she said” – “come esecuzione il brano più notevole dell’album”, secondo McDonald – è inquietante e disturbante, irregolare e spigolosa; e “Love you to”, primo frutto concreto dell’interesse di Harrison per la musica indiana, fu per l’epoca una rivelazione sonora, e suscitò un vasto interesse (oltre a generare innumerevoli imitazioni)
Resta da dire di “Eleanor Rigby”, che - attribuibile a McCartney - reca le stimmate del capolavoro. Merito di un testo visionario (“indossa la faccia che tiene in un vaso vicino alla porta”: secondo la scrittrice A.S. Byatt, la frase “possiede la perfezione minimalista di un racconto di Beckett”) che racconta la disperazione della solitudine attraverso annotazioni fulminanti - Eleanor Rigby “raccoglie il riso nella chiesa dove è stato celebrato un matrimonio”, padre McKenzie “la sera, da solo, si rammenda i calzini” (pare che quest’idea sia stata suggerita da Ringo Starr; ma Lennon rivendicò in seguito la paternità di “circa il 70% del testo) – e affronta esplicitamente il tema della morte, che solitamente la musica pop preferiva evitare, con una brutalità (il prete che “si ripulisce le mani dalla terra allontanandosi dalla tomba”) e una compassione sincere ed emozionanti. E merito di una melodia crudelmente disadorna e di un arrangiamento per ottetto d’archi che ebbe sulla scena musicale del momento un impatto e un’influenza decisivi.
Così come l’intero album (del quale va ricordata anche la copertina realizzata da Klaus Voormann in un bianco e nero psichedelico); dopo la pubblicazione del quale i Beatles – attraverso il singolo a doppia facciata A “Penny Lane” / “Strawberry Fields forever” – iniziarono la costruzione di un disco monumentale come “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”: del quale “Revolver” non possiede forse l’importanza epocale, ma certamente eguaglia, se non addirittura supera, la validità artistica e creativa.