L’amore degli Starsailor è un malinconico viaggio verso l’ignoto. Quello stesso che loro, adolescenti di un piccolo paese nel nord dell’Inghilterra, hanno trovato frugando nella storia della musica. Quell’amore che li ha portati a scegliere il titolo di un disco di Tim Buckley e usarlo per presentarsi al pubblico, gettandoselo addosso quasi fosse una nuova veste. Forse gli Starsailor non vogliono essere i nuovi Tim Buckley; forse non ne hanno la stoffa; molto più probabilmente non ne hanno il carattere, burrascoso, tormentato ed eclettico. Eppure c’è qualcosa, in loro, di così languido e commuovente, che non può che ricondurci a certe figure disperate della storia del rock, gente come Tim e Jeff Buckley, o, ancora, Nick Drake. Nel momento in cui tutti i gruppi emergenti inglesi sono stati paragonati prima ai Radiohead, e poi ai Coldplay, nell’attimo in cui il tanto celebrato New Acoustic Movement, dopo aver dato vita a band come Elbow e Doves sembra dimenticato, gli Starsailor hanno deciso di chiudere gli occhi e navigare, come moderni Ulisse, nelle acque antiche della musica e del loro amore: l’amore per il folk e per il country. L’amore che ha portato Joe Walsh e la sua voce estatica, acuta e struggente, a giocare pericolosamente sulla scia del ricordo di Buckley e dell’America cantata da Neil Young, come nel dramma d’apertura del brano “Tie up my hands”, o nella psichedelia fluttuante di “Lullaby”, costruita sulla leggerezza di un piano, chitarre e organo. Quella stessa passione che, intrecciandosi con parole semplici e incisive, fa urlare nella luce satura del crepuscolo, “spazza via le ragnatele, ho bisogno di amore”.
(Valeria Rusconi)