Intendiamoci: “The Id” non rinnega affatto le qualità salienti della Gray, quella sua scioltezza nel giocare sensualmente e spudoratamente con i santini della black music degli anni d’oro (’60 e ’70); ed è da lodare incondizionatamente il coraggio che l’ha spinta a ricercare per l’atteso seguito scelte più radicali e compagnie impegnative come quella del celebre produttore Rick Rubin, specialista in incendiarie commistioni tra rock e hip hop. Ma se la coppia ha fatto certamente scintille, in sala di registrazione, bisogna aggiungere che non tutte accendono la miccia sperata. C’è, nel disco, un gran dispendio di suoni, di ospiti, di arrangiamenti creativi, di strumenti esotici (il theremin di Brian Wilson e Jimmy Page!): ma il motore delle canzoni finisce talvolta per ingolfarsi, l’intelaiatura ritmico-melodica per perdersi nella luccicante grandeur dell’allestimento. Ci sono belle canzoni, e non poche, in “The Id”, ma all’album mancano la disciplina, la concisione e il rigoroso controllo di qualità che contraddistinguono molti grandi dischi del genere (e, tutto sommato, anche il suo predecessore). Non fanno difetto, al contrario, vitalità, bizzarria, ironia, idee e citazionismo musicale (a sezionare minuziosamente gli arrangiamenti, c’è da divertirsi). Basti ad esempio “Sexual revolution”, selezionata come nuovo singolo: dove un delicato preludio per archi, ottoni e pianoforte si apre inaspettatamente ad una spumeggiante cavalcata disco che non avrebbe sfigurato nella colonna sonora musical-kitsch del “Moulin Rouge” cinematografico firmato da Baz Luhrmann (con effetti, a scanso di equivoci, esilaranti e trascinanti). E già che di singoli si parla, va detto che proprio “Sweet baby”, il morbido duetto con Erykah Badu che ha anticipato l’uscita del disco, merita probabilmente la palma di pezzo più indovinato della raccolta: che si tratti anche del più prevedibile suona come un ulteriore omaggio alla freschezza del disco di debutto.
In cotanta sovrabbondanza di colore e pieni sonori, essenzialità e parsimonia esecutiva (sorretti da un ottimo inciso) fanno rifulgere una ballad come “Don’t come around”, pop soul in stile classico ma non calligrafico grazie anche alla voce inconfondibile della protagonista, “più sabbia che ghiaia” secondo la felice definizione di un recensore americano. “Freak like me” tiene il passo grazie ad un fraseggio pianistico e ad una sezione fiati avvolgenti, mentre “Harry” e “Give me all our lovin’ or I will kill you” seducono poco a poco con il loro indolente passo funkeggiante. Risulta meno convincente, a confronto, “My nutmeg phantasy” (quasi un’Anastacia in tono minore, ospite Angie Stone), mentre il funk di “Related to a psychopath” e la “street symphony” di “The world is yours” (una cover del gangsta rapper Slick Rick, presente nell’incisione) si attorcigliano un po’ su se stesse inciampando in una giungla di suoni, e la deviazione mitteleuropea-cabarettistica di “Oblivion” lascia francamente un po’ sconcertati.
La Gray ha talento da vendere, ma non è Sly Stone né George Clinton, tanto per citare due paradigmi classici di genio e sregolatezza “black”. Fossero stati solo un pizzico più controllati e meno ambiziosi, lei e Rubin, avrebbero confezionato un disco magari meno spettacolare e divertente ma più ricco di autentico feeling soul.
(Alfredo Marziano)