"Eppure non cè niente di nuovo. Sono ancora note e parole messe insieme come mattoni a costruire canzoni come case illuminate nella notte da cui provengono suoni e voci e risate e sospiri e un senso di vita da raccontare nascosti nel buio. Ci sono il sonno e la veglia, la nostalgia di un futuro ormai quasi passato, un piede che batte il tempo, lallegria di una fisarmonica e la malinconia di una fisarmonica, il fischio lacerante di un treno che diventa la voce struggente di una cornamusa a riportare il ricordo e a rinnovare una curiosità che il tempo non è mai riuscito a coprire di polvere". E quello che del disco scrive Giorgio Faletti, autore dei testi di un album che per molti versi potremmo definire il solito album di Branduardi ultima maniera, quello che da "Si può fare" in poi sembra aver dato una sterzata maggiormente moderna ad una musica fortemente imparentata con la tradizione celtica e con i cantastorie girovaghi del medioevo. "Il dito e la luna", metafora della capacità di vedere e della stupidità ("Quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito), è un disco che si abbandona spesso alla narrazione in prima persona tipica di Faletti, piuttosto che indugiare sulle storie altrui come è nello stile proprio di Branduardi: ne viene fuori un album più personale per forza di cose, e a tratti più egotico. Per il resto, niente di nuovo. A chi piace piacerà, a chi non piace più o non è mai piaciuto resterà della sua opinione anche questa volta.
Angelo Branduardi - IL DITO E LA LUNA - la recensione
Recensione del 02 giu 1998