(Diego Ancordi)
L’arte compositiva di Joe Henry assume connotati stilistici sempre più fumosi, interiorizzando sempre più i propri sentimenti e esplorando l’umano da una dimensione intimista e notturna che però non nasconde il suo fascino intrinseco. La raffinatezza esecutiva viene affidata a musicisti di scuola jazz e questo segna con decisione una componente sonora che Henry riesce comunque a mantenere assolutamente personale, cosa che dimostra tutta la sua grandezza. Sofferenza e passione pervadono l’ottavo album del nostro, che parte dal blues di “Richard Pryor addresses a tearful nation” per arrivare al funk di “Nico lost one small Buddha”, passando attraverso la love ballad (“Mean flower”), il tango (“Stop”, cover del recente singolo di sua cognata Madonna Ciccone “Don’t tell me”, originariamente composto per la colonna sonora del serial “The Sopranos” e poi scartato) e la presenza degli archi (“Edgar Bergen”). Se nel precedente “Fuse” era stata determinante la collaborazione di Dylan e dei suoi Wallflowers, a caratterizzare il sound di un album meditativo come “Scar” c’è una vera e propria jazz band, con solisti d’eccezione come Ornette Coleman, Brian Blade, Abe Laboriel Jr., Brad Mehldau, Mark Ribot, Bobby Malach, Me’Shell Ndegéocello e David Plitch. “Scar” è dunque nella sostanza un disco di jazz-rock, a conferma delle camaleontiche doti di un artista in continua evoluzione che dalle radici americane è giunto a un passo dall’avanguardia dopo le frequentazioni alternative-country di “Short man’s room” e “Kindness of the world” (registrato con i Jayhawks), le propensioni ritmiche di “Trampoline” e le incursioni tecnologiche di “Fuse”. “Scar” è un disco da gustare di notte sorseggiando un whiskey invecchiato; contiene anche una traccia ROM con materiale sull’artista e una ghost track finale basata su un’improvvisazione al sax (si presume di Ornette Coleman).
(Diego Ancordi)
(Diego Ancordi)