“No more shall we part”, va detto, è un album di rara bellezza: sono belle le canzoni (“Halleluja”, con gli archi di Ellis e Harvey ed i cori delle McGarrigle, colpisce al primo ascolto per il suo lirismo semplice e diretto), sono belle le sonorità (Tony Cohen non è decisamente il primo venuto), ed è bella l’atmosfera che si crea all’interno delle 12 tracce del disco. Anche se non è questo il punto, perché da un artista come Cave è lecito, se non doveroso, aspettarsi qualcosa di più: chi lo conosce, almeno dai tempi dei Bad Seeds, sa quanto Re Inchiostro sia “essenziale” nella sua produzione, e come – nei suoi album – ogni nota ed ogni parola abbiano un’importanza particolare.
Bene, con “No more shall we part” Nick Cave non solo ci ha regalato un ottimo disco, ma ci ha offerto anche una “veduta” della sua carriera da una tappa del suo percorso artistico tra le più alte: ed il fatto che questo disco gli sia costato fatica (quattro anni di incubazione, più un temporaneo allontanamento dai Bad Seeds) testimonia solamente il grande valore e la grande onestà di un artista che non ha avuto paura di mettersi in discussione, come uomo prima che come musicista. Non a caso “No more shall we part” è forse l’album più personale che Cave abbia realizzato coi “semi cattivi”: voce e piano sono oggi più protagonisti che mai, dominando senza problemi i discreti arrangiamenti della band (Blixa Bargled è quasi impercettibile, mentre grande rilievo è stato dato al violino di Ellis). Paradossalmente, siamo più vicini, con questo disco, a “Kicking against the pricks” che non a “Let love in”: in pezzi come “God is in the house” e “Love letter” si respira la stessa atmosfera che pervadeva i brani del celeberrimo cover album, privi però di quell’afflato soffocante e claustrofobico che era – fino a poco tempo fa – il marchio di fabbrica di casa Cave.
Cosa dimostra tutto ciò? Sembra un’affermazione azzardata, ma pare che Nick Cave abbia finalmente trovato – musicalmente e non – quello che cercava da tanto tempo: “No more shall we part” ha segnato senz’altro una svolta (forse la più radicale nella carriera solista di Cave), portando a compimento il discorso che l’australiano cominciò con “From her to eternity”. Chi aveva paura che nel cuore di tenebra di Cave ci fosse una sola canzone, una sola corda da pizzicare, dovrà ricredersi.
(Davide Poliani)