La missione, ascoltando l’album, può dirsi per il momento riuscita: i suoni sono perfetti, le “regole” house – intro filtrate, loop tagliati a mezza misura – rispettate alla lettera, la padronanza delle “macchine” totale (ascoltando la chitarra di “Aereodynamic”, o la traccia vocale di “Harder, better, faster, stronger” ce ne rendiamo conto) ed il divertimento, perché no, assicurato.
Certo, perché “Discovery” ha il grande merito di porsi, soprattutto grazie alla sua attitudine, come trait d’union tra la dance e il pop, coniugando magistralmente melodia e beat, riuscendo a trovare il compromesso tra orecchiabilità e ballabilità: fa niente, poi, se il potenziale innovativo dell’album ne esca leggermente ridimensionato; non è questo che ci si aspettava dai Daft, nessuno pretendeva da loro uno sconvolgimento di canoni. E’ già sufficientemente rivoluzionario, infatti, tradurre in maniera credibile e non scontata in pop un genere tendenzialmente ostico come la techno per conquistare stima e rispettabilità: e, in questo caso, il loro lavoro è stato svolto nel migliore dei modi.
Non che “Discovery” manchi “in toto” di pecche: il vocoder – più che nella costruzione della canzone – viene la maggior parte delle volte degradato a mero orpello stilistico (di cui, dopo la Eiffel-mania, faremmo tutti volentieri a meno), e l’invenzione melodica – in casi, va detto, piuttosto rari – denota concessioni forse troppo grosse al pubblico. Consideriamo comunque “Discovery” come un album nato soprattutto per far ballare: episodi “estranei” come “Something about us” o “Nightvision”, seppur molto interessanti e di notevole pregio, possono essere visti come delle variazioni sul tema da contestualizzare all’interno dell’opera, non come vere e proprie tappe del percorso intrapreso dal seguito di “Homework”. Per questo – ed altri motivi – penso che l’opinione migliore su “Discovery” ce la si possa formare su un dancefloor, non in cuffia davanti ad un computer…
(Davide Poliani)