Il quasi trentenne Daniele Groff ha capito che non si possono trascrivere gli Oasis tutta una vita. Ce la mette tutta in questo nuovo lavoro dal precedente, anche se l’influenza in parte continua. E la convalescenza non sta andando per il meglio.
Dopo “Daisy”, il cantante trentino si è fermato per due anni. Ha pensato, si è fatto la barba, ha cambiato pettinatura, è andato a Los Angeles, si è fatto consigliare da Mogol. Ha tentato strade diverse, provato a costruirsi un’identità propria. Ed è finito a fare canzoni che si chiamano “Ti voglio bene”, “Ma l’amore cos’è” (o “Mondo”, in cui la rima in un impeto di genialità è con rotondo…)
I testi non vanno oltre. Groff tiene a raccontarci storie varie, a descrivere personaggi, a far sapere all’ascoltatore cose del tipo “ci credi che ora da grande son più bambino di quand’ero all’asilo”. Il tutto è di una vacuità impressionante. In un caso si scomoda come autore anche Lucio Dalla, per il testo di “Lory (chiudi gli occhi)”, che peraltro si confonde tranquillamente con le altre. Insomma, le idee non abbondano, così come gli aspetti positivi: una certa maturità vocale, qualche trovatina riuscita (tipo l’inizio di “Mondo”), un senso melodico a volte anche seduttore e che può anche ingannare. Ma più si va avanti con l’ascolto e più si peggiora. Produzione standard e curata, certo, ma oggi non è una gran virtù: basta avere un po’ di soldi a disposizione.
Le canzoni ti si attaccano come fossero creditori, di quelli gentili però. Il target a cui si mira è quello delle ragazzine che possono comunque avere qualche fremito a sentire qualche chitarrina che fa rock (“If you don’t like it”).
Fa riflettere il fatto che un ragazzo giovane faccia canzoni che erano obsolete già trent’anni fa, quando i Beatles si sono sciolti.
(Francesco Casale)