Difficile uscire dal tunnel dei Pink Floyd, dicevamo, e Waters lo dice chiaro e tondo a partire dal titolo di questo live – che arriva da “The wall” – e dalla copertina: il lato scuro della luna illumina il filo spinato di “The final cut”, un muro di palazzi impedisce di vedere cosa c’è dietro, ma davanti si stagliano sagome di maiali, autostoppiste nude, Pink davanti alla televisione e l’antenna di Radio K.A.O.S.
“In the flesh”, resoconto dei concerti tenuti negli ultimi due anni da Waters con la sua nuova band – immaginiamo a uso e consumo anche di questo disco – è un po’ il Vangelo dei Pink Floyd secondo il loro bassista, dopo l’orgia di live a cura della premiata ditta titolare del marchio. Poco materiale da “The wall” (5 canzoni), visto il cofanetto dell’anno scorso, e poco anche da “Dark side of the moon” (altre 5 canzoni), recentemente inciso interamente sul live da quelli che Waters chiama laconicamente “another band”. Per il resto un ripescaggio da “A saucerful of secrets”, due canzoni di “The final cut”, due di “Animals” e tre da “Wish you were here”, e una manciata di canzoni estratte da due dei suoi tre album solisti, “The pros and cons...” e il più recente “Amused to death”.
Difficile uscire dal tunnel dei Pink Floyd anche nella tematica portante del lavoro, che continua a essere quella della comunicazione, o meglio, della comunicabilità. Nelle note interne al booklet Waters si sofferma ancora sulla questione del rock e delle sue dimensioni, illustrando i suoi ultimi tour come maggiormente intimisti e raccolti, alla ricerca del feeling perso e reso guasto dalle adunate pinkfloydiane. Non si fatica a credergli, anche se è difficile cancellare il ricordo della folla oceanica che assistette alla rappresentazione del suo “The wall concert” all’indomani dei fatti di Berlino. Ma lì le motivazioni sovrastavano di certo l’aspetto musicale della vicenda. Waters afferma anche, con un certo orgoglio, che i suoi brani solisti reggono perfettamente se inseriti nel contesto prettamente floydiano di questo album, e ha ragione, visto che sia “The pros and cons...” sia, specialmente, “Amused to death” sono degne prosecuzioni degli ultimi album da lui realizzati con la gloriosa ditta. Ciò non toglie che, su 24 brani, i 5 estratti dagli album solisti di Waters più l’inedito conclusivo sembrano un po’ poco per offrire a questo lavoro un’identità diversa da quella di ennesima celebrazione di una pagina fondamentale della storia del rock. Archiviata – con buona pace di tutti – sotto la P di Pink Floyd. Che poi faccia piacere ritrovarlo decenni dopo, così, con i capelli imbiancati e un taglio alla Richard Gere, sorridente e ispirato come appare nelle foto - lontano anni luce dal tenebroso psicopatico del “dopothewall” - non può che farci venir voglia di augurargli tutto il meglio per il futuro, ché i Pink Floyd hanno già pagato sufficiente pegno all’infelicità.
(luca bernini)