(Mark Spitz, nuotatore, sette medaglie d’oro alle Olimpiadi di Monaco ’72)
Le regole ramazzottiane della canzone pop sono scritte da tempo. Chi dopo 4 anni si fionderà sul “nuovo” disco di Eros, le ritroverà e ne sarà confortato, così come chi ama la Nutella non sopporterebbe, nel comprarne una nuova confezione, di scoprire che il sig. Nutella ha deciso di “rinnovarsi” o “aprire a influenze etniche” (usando datteri o sushi, forse). Eros manda avanti un’azienda, deve far tornare i conti, e sa bene cosa piace alle pance dei suoi clienti. Ecco perché il titolo più appropriato per quest’album dovrebbe essere casomai “Variazioni Ramazzotti” – con esplicito rimando alle Variazioni Goldberg di Bach, delle quali Glenn Gould, che ne fu magistrale interprete, scrisse:
“Anche da un primo ascolto salterà subito all’occhio la differenza tra la grandiosità delle variazioni e la modestia della sarabanda che ne fornisce lo spunto. (…)La variazione ha un’unità che le viene dalla percezione intuitiva, un’unità che nasce dal mestiere e dalla rigorosità, ed è ammorbidita dalla sicurezza di una maestria consumata”.
Tutto è più chiaro: in ogni senso. Più bella cosa non c’è, per il fan di Eros, di un disco di Eros: il quale percepisce intuitivamente che è in fondo giusto rifare ogni volta quello stesso disco nel modo migliore. Il cliente prende, mette la cassetta nell’autoradio, e per qualche mese è giustamente felice. Il prodotto è perfetto, e nessuno può rimproverare il cantante di non essere se stesso. Quindi, è quasi un vezzo da critici il tentativo di cogliere le sottigliezze nascoste nelle “variazioni” rispetto al repertorio consueto: la quasi-dance di “L’ombra del gigante”, l’incedere blues di “L’aquila e il condor”. Ed è quasi superfluo accennare alla squadra costituita stavolta con Steve Ferrone, Brian Auger, Michael Landau, Celso Valli, Rick Nowels e Trevor Horn… Né vale la pena di soffermarsi troppo sulla scelta dell’ospite di turno per il mercato estero (Patsy? Già usata… Tina? Già usata… Facciamo uno squillo a Cher, và”), e della griffe “d’autore” per uno dei testi: Jovanotti, impagabile, riesce nell’impresa di dare a una storiella di lei-che-molla-lui-e-lui-dice-ahimè un titolo come “Improvvisa luce ad est”… Tutta roba di prammatica, quando girano certi numeri. E chi ama i numeri, può riflettere su questi: 800 giornalisti da tutto il mondo alla presentazione di questo disco. Detto tra noi, chi conosce la sua produzione potrebbe meravigliarsi che non ci abbia messo 2-3 giorni a fare questo disco: possibile che a Ramazzotti risultino difficili brani che sono la quintessenza della ramazzottianità (“Più che puoi”, “Il mio amore per te” o “Un angelo non è” – quanto mai calzante la succitata espressione “maestria consumata”)? Sarebbe come se all’esperto campione riuscisse difficile addomesticare il pallone – e visto che siamo in metafora, è opportuno segnalare che Eros si è definito “il Totti della musica. E’ un equivoco non dissimile da quello dello “stile libero”: del n.10 della nazionale ha la romanità piaciona ma non l’intuizione e il guizzo. Semmai, oggi Eros è un Demetrio Albertini, che ha in mano il gioco e sa dove far andare la palla, ma nonostante la indiscussa, consumata maestria, inventa raramente. Ad ogni buon conto, non è necessariamente una critica: in fondo anche in questo album Eros dà ai fan quello che vogliono, quello che nessuno come lui sa fare, quello che regala loro il sogno di una “Terra promessa” – anche se la sua, stranamente, si trova in Brianza.
(Paolo Madeddu) |