Jakob Dylan ottiene molta attenzione e copertine per via del suo cognome ma – chiarito il punto – dobbiamo constatare che nel suo lavoro riesce molto meglio di un Julian Lennon e di un Dweezil Zappa. Il suo problema sono le liriche: non perché non siano buone – al contrario, c’è talento vero anche questa volta; ma perché in chi ascolta il paragone, almeno per un nanosecondo, corre sempre a quelle di Bob; e importa poco che siamo ormai alla terza puntata: questo resterà un riflesso incondizionato e rimarrà una sfida persa in partenza.
Come in passato, gli episodi migliori di “Breach” sono quelli in cui Jakob si concentra più sul gruppo che sui suoi testi: quando la band fatica a tessere una trama all’altezza dell’obiettivo lirico del leader, il risultato è mediocre (accade, ad esempio, in “Witness”); quando macina in relax, al contrario, sfodera piccole gemme come “Letters from the wasteland” o “Birdcage”, diverse tra loro ma accomunate dalla solidità del suono e dall’omogeneità dell’impasto.
Qualche ascolto e il CD diventerà un compagno difficile da cui separarsi. Il vero fan del gruppo sappia che “Bringing down the horse” era migliore, ma ricordi anche che quell’album era un mini-capolavoro per il suo genere, anche perché capitò a metà anni Novanta e indicò nei Wallflowers una band che girava con un cordone ombelicale lungo trenta e passa anni senza vergognarsene. “Breach” è OK, e fa venire voglia di andare a vederli suonare dal vivo.
(Giampiero Di Carlo) |